sabato 18 maggio 2013

Se la 'cultura' del rom vale più della vita di un italiano

Per Nikolic erano stati chiesti 26 anni di carcere, pena ridotta a 15






Aveva falciato un agente della polizia municipale di Milano trascinandolo per 200 metri con un Suv che non avrebbe potuto guidare (perché minorenne), era pregiudicato, ma i giudici gli hanno concesso le attenuanti generiche per il 'contesto culturale' in cui è cresciuto. Eppure il codice penale dice qualcos'altro...
“La legge è uguale per tutti”. Non è vero. Al di là della retorica e delle polemiche. Oltre i proclami di Silvio Berlusconi ed il suo convincimento di essere un “perseguitato” della magistratura, bisogna dirsi la verità: la giustizia italiana a è un fallimento. E fallisce ogni qualvolta un innocente viene ucciso ed il colpevole non viene punito come meriterebbe.   È successo questo a Milano, nel processo per l’omicidio del vigile urbano Nicolò Severino. Sul banco degli imputati c’è un giovane, giovanissimo rom, Remi Nikolic, diciott’anni ancora da compiere. Il 12 gennaio del 2012 aveva letteralmente falciato, con un Suv, il povero “ghisa”. Un Suv che, ovviamente, non poteva guidare perché non aveva neppure l’età per prendere la patente. Non solo, Nikolic era già stato fermato (e poi rilasciato) proprio perché sorpreso al volante di un’altra vettura. Recidivo, dunque, il giovane rom. Ma questo non è bastato per convincere i giudici. 
La pubblica accusa aveva chiesto 26 anni di carcere. Omicidio volontario. E, in proposito, il codice parla chiaro:  “chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21”, art. 575 c.p.
Le motivazioni del Pm, però, per la Corte non sono state sufficienti e la pena è stata ridotta a 15 anni. E questo grazie alla concessione delle attenuanti generiche, in quanto il giovane romeno “non aveva precedenti penali rilevanti”, ma soprattutto perché Nikolic è cresciuto in un “contesto familiare caratterizzato dalla commissione di illeciti da parte degli adulti di riferimento e nella sostanziale assenza di scolarizzazione”. Strano, molto strano. Perché basta prendere un codice penale e leggere l’articolo 133 che enuclea i criteri che il giudice deve seguire per arrivare ad irrogare la pena. Sì, perché al secondo comma è scritto, a chiare lettere, che “il giudice deve tenere conto della gravità del reato, desunta dalla gravità del danno o dal pericolo cagionato alla persona offesa”. Esiste forse danno più grave della privazione della vita? Il fatto di essere cresciuto in un ambiente dove la criminalità è più diffusa rende qualcuno meno colpevole per un omicidio? Perché, se fosse così, chi nasce a Scampia o al Quartiere “Zen” di Palermo, sarebbe più legittimato a commettere reati di chi nasce e cresce in via Montenapoleone o a viale Parioli. E questo sarebbe francamente inaccettabile. 
Contestualizzare è un obbligo, giustificare indiscriminatamente è insensato.
Se lo scopo del carcere è quello di rieducare i colpevoli, quello di uno Stato di diritto è di tutelare i suoi cittadini. E non esiste bene più inviolabile, da difendere più strenuamente, del diritto alla vita. Perchè, ogni qualvolta la morte di un uomo vale meno della riabilitazione del suo assassino, la giustizia fallisce.
Micol Paglia

Nessun commento:

Posta un commento