martedì 30 aprile 2013

CARLO BORSANI






"....il 27 Aprile viene prelevato, insieme al Magg. Bertoli, e trasferito in una cella del palazzo di giustizia insieme ad altri detenutu politici. La mattina del 29 Aprile alcuni partigiani, rimasti sempre sconosciuti, si presentano con documenti del C.L.N. ed ottengono il permesso di trasferirlo in altro logo.

Il Magg. Bertoli si fa avanti offrendosi di accompagnarlo, ma i partigiani lo respingono, ed alla sua proposta di dargli gli effetti personali rispondono : "Dove va lui non servono".

Condotto presso la scuola di viale Romagna subisce un sommarrio e criminoso processo. Condannato a morte è assassinato, insieme a Don Tullio Cacagno, direttore di "Crociata Italica", in piazzale Susa. 

Prima che l'esecuzione avvenga, Bersani trae dal portafogli la prima scarpetta di lana della figlia Raffaella, la bacia e per l'ultima volta grida "VIVA L'ITALIA"

29 Aprile 1945. Un carretto della spazzatura attraversa le vie di Milano per raggiungere l' obitorio dove scaricherà un corpo senza vita. Unico riconoscimento un cartello: Carlo Borsani ex medaglia d'oro"




Figlio di un operaio, rimase orfano di padre in giovane età e visse per molto tempo in povertà. Con grandi sacrifici della madre riuscì ad iscriversi all 'università, che però abbandonò nel 1940 per andare a combattere da volontario contro la Francia, guadagnandosi al termine della campagna una prima medaglia al valor militare. Poco dopo aver scritto l'inno del suo reggimento fu inviato in Albania in vista dell'attacco alla Grecia.
Seppur gravemente ferito durante un assalto, Borsani continuò la battaglia venendo colpito da un colpo di mortaio che gli scoperchiò letteralmente il cranio. Dichiarato morto nello stesso giorno (9 marzo 1941), riuscì a riprendersi sebbene rimase completamente cieco: a causa di questo episodio fu decorato con una medaglia d'oro al valor militare e fu dichiarato mutilato di guerra e grande invalido.
Dopo l’8 settembre 1943, Carlo Borsani si schierò con la Repubblica Sociale Italiana, divenne presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di guerra, e direttore di un nuovo quotidiano, La Repubblica fascista, una direzione affidatagli direttamente da Mussolini. Rimase sei mesi al posto di direttore, poi i suoi appelli a superare gli odii fratricidi gli valsero l’ostilità del tandem oltranzista Farinacci-Pavolini che ne chiese la testa al Duce.
Il suo ultimo editoriale su La Repubblica fascista, prima di essere licenziato, aveva come titolo "Per incontrarci", un'apertura di dialogo con chi stava dall'altra parte, rivolto agli antifascisti.
Ciò nonostante, al termine della seconda guerra mondiale si rifugiò a Milano, ma venne assassinato a Piazzale Susa da un gruppo partigiano comunista con un colpo alla nuca. Il suo cadavere gettato su un carretto della spazzatura, dopo aver girato per le vie dell'Ortica, Monluè e Città Studi, con il cartello "ex medaglia d'oro" giunse all'obitorio. Da lì fu portato e sepolto al cimitero di Musocco, nel Campo n. 10, fossa 1337 insieme a decine di caduti della Repubblica Sociale Italiana.



Carlo Borsani nasce a Legnano (MI) il 29 agosto 1917 da famiglia socialista. Ultimo di quattro fratelli, a 13 anni resta orfano del padre Raffaele, operaio della FRANCO TOSI Meccanica fondata nel 1881, per un incidente di lavoro tra le cinghie una puleggia. Entra nel Collegio Vescovile di Lodi e vi compie gli studi liceali, ma non quelli teologici necessari al sacerdozio e nel 1937 si iscrive alla Facoltà di Lettere dell'Università Statale di Milano. 
Terminato il Corso Allievi Ufficiali a Salerno il 12 marzo 1939, mentre sta svolgendo a Milano il Servizio di prima nomina di Sottotenente nel 7° Reggimento Fanteria, le due potenze imperialiste europee Francia e Gran Bretagna dichiarano guerra alla Germania per aver invaso l'1 settembre la Polonia. Il suo Reggimento da Milano viene subito trasferito a Limone Piemonte (CN), ma dal 10 al 24 Giugno 1940 non spara neppure un colpo contro i francesi. Il conflitto lo allontana dai Corsi universitari e dopo la dichiarazione di guerra alla Grecia del 28 ottobre 1940, con il 7. Reggimento della Divisione CUNEO si imbarca a Brindisi su Nave Sardegna e raggiunge Valona il 22 dicembre. 
Aggregato con il 3. Battaglione alla Divisione ACQUI, il 4 gennaio 1941 al battesimo del fuoco contro i greci, oltre Passo Logora presso il caposaldo Mai Skutarait, viene ferito da alcune schegge. Nel combattimento del 9 marzo sulle pendici del Messimerit (1695 m), uno dei monti innevati paralleli alla costa jonica una mitragliatrice lo ferisce alle gambe e attorno alla barella che lo trasporta scoppia un colpo di mortaio che uccide tre soccorritori e lo colpisce alla testa. Ritenuto morto, viene deposto tra i Caduti. Al seppellimento muove una mano. Operato nell'Ospedale da campo di Krionero, si salva ma resta privo della vista. Viene insignito di Medaglia d'Oro al Valore Militare. 
Nel marzo del 1942 dà alle stampe le prime poesie e nel luglio si laurea in Letteratura Italiana con una Tesi su "Gli aspetti della poesia classica nei confronti di quella moderna". Tra quanti lo aiutano a studiare c'è una sedicenne studentessa presso le Suore Orsoline, Franca Longhitano, che diviene sua moglie il 21 ottobre 1942 nella Cappella del Centro Mutilati dell'Ospedale Militare milanese di Baggio. Nascono due figli: Raffaella il 4 novembre 1943 e Carlo, cinque mesi dopo il funesto aprile, il 26 settembre 1945. . 
Aderisce alla RSI a Milano con un gruppo di giovani e il 28 settembre il Governo Repubblicano gli affida la guida dei Mutilati di guerra. In RSI otterrà l'erogazione della pensione anche per gli invalidi del lavoro. Il 10 novembre 1943 lancia un appello agli italiani dagli studi milanesi EIAR di Corso Sempione, il 20 febbraio 1944 commemora Dante Alighieri con un discorso radiodiffuso da Palazzo Vecchio a Firenze, il 23 marzo esalta a Roma nel Palazzo delle Corporazioni la Fondazione dei Fasci di Combattimento e il 29 aprile celebra al Teatro Odeon di Milano la "Giornata del Mutilato". 
Il 23 gennaio 1944 firma a Milano il primo numero LA REPUBBLICA FASCISTA con redazione nei locali di Via Galilei de LA GAZZETTA DELLO SPORT, non in edicola. Dopo l'editoriale "Per incontrarci" rivolto ai ribelli, il 16 luglio 1944 viene avvicendato nella direzione del quotidiano da Enzo Pezzato. Collabora con i fondatori del "Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista", Partito autorizzato da Mussolini il 13 febbraio 1945 e il 15 aprile manifesta per le vie di Milano tra le migliaia di Combattenti convocati dalla M.d'O. Bruno Gemelli, Sottosegretario per la Marina Repubblicana. 
Trascorre la sera del 25 aprile 1945 con i Marò della Decima MAS e la notte all'Albergo Nord in Piazza della Repubblica dove, al mattino, rifiuta l'offerta di Borghese di un espatrio. Si rifugia all'Istituto Oftalmico, ma il 27 dopo una spiata è rinchiuso nei sotterranei del Palazzo di Giustizia. Nel pomeriggio del 29 aprile, insieme a don Calcagno, è condotto nelle Scuole di Viale Romagna e da lì in Piazzale Susa dove viene assassinato con un colpo alla nuca.




Discorso di Carlo Delcroix pronunciato al Teatro Adriano di Roma l'1l febbraio 1951, dedicato a Carlo Borsani, un eroe della guerra perduta. 

Il 29 aprile 1945 Carlo Borsani giacque sull'erba del piazzale Susa a Milano. 
A quel condannato non fu necessario imporre la benda, e dell'ombra che lo fasciava avrebbe abusato la morte per non dichiararsi. Al plotone di esecuzione il comando di fuoco si suol dare con un cenno, ed è la misericordia del silenzio, mentre quello fu il silenzio della viltà che non osò guardare chi non poteva vederla. Nel chiaro mattino il cieco sorrideva al sole, e qualcuno gli girò intorno per colpire alla nuca il soldato a cui la gloria aveva schiuso una rosa in fronte. Carlo Borsani apparteneva alla generazione dei nostri figli, e non avrebbero dovuto dimenticarlo quelli che lo fecero uccidere perché, da qualunque parte si fossero trovati, avevano una qualche responsabilità nella guerra di cui sarebbe stato vittima tre volte il giovane a cui fu tolta la vista, la vittoria e la vita. Eppure, il suo nome figurava nella lista dei capi da sopprimere, segno che la sua fine fu deliberata. 
Un giorno sapremo forse chi sia stato a ordinaria e da chi l'ordine fosse eseguito, ma quello che non riusciremo mai a sapere né a capire, è di quale colpa si volle punirlo. 

La poesia 
Nato il 29 agosto 1917, nessuna retroattività poteva giungere fino a lui, perché il fascismo era già affermato prima che egli fosse in grado di compitarne il nome sul libro di scuola. Anche quando fu cresciuto e la consegna era di dare il passo ai giovani, egli che aveva tutte le qualità per farsi avanti non figurò fra i precoci gerarchi e, se una qualche precocità egli ebbe, fu per la poesia, non quella cortigiana che aprì la via del successo a molti, oggi passati alla musa progressiva. Non è a dire che lo additasse all'odio il privilegio della nascita perché, figlio di un operaio e rimasto subito orfano, fu allevato dalla povertà e dalla tristezza. Suo padre, un metallurgico vecchio socialista, aveva trovato la morte in un orrendo agguato della macchina e, se egli poté studiare, fu grazie alle fatiche e alle privazioni della madre, che si levò il pane di bocca per evitare al figlio di finire nell'officina, fra gli ingranaggi che le avevano stritolato il marito. 
Così una lavandaia mandò il figlio all'università, e la guerra lo trovò studente di lettere a Milano. Aveva però già fatto il corso per ufficiale di complemento con la sua leva e, quale comandante di plotone, si guadagnò una prima medaglia nei brevi, sanguinosi combattimenti che portarono all'armistizio con la Francia. 

Energia e rigore 
Quando il suo bel reggimento, del quale aveva composto l'inno, passò fra la neve e il fango dell'Albania con i rinforzi inviati a raddrizzare le sorti di quella disgraziata campagna, egli aveva fatto del suo plotone un pugno di arditi. Così pallido e biondo, dall'aspetto delicato e pensoso, l'occhio azzurro sotto una fronte spaziosa e scoperta, accompagnava ad una inaspettata energia un rigore che esercitava sopra sé medesimo, e per questo i fanti lo amavano. 
Il 9 marzo 1941 è con i suoi volontari all’assalto della terribile quota 1252 che egli deve attaccare di rovescio per attirare il fuoco e facilitare l'avanzata dall’altra parte. Ferito una prima volta, prosegue finché una granata di mortaio gli scoperchia il cranio e, creduto morto, stanno per avvolgerlo nel telo da tenda, quando muove una mano, e lo portano indietro, senza speranza. 
Invece sopravviverà, e un giorno sarà udito cantare e nessuno potrà credere che la voce sia uscita da quello strazio. Il canto nasce ogni volta che la notte si sposa al silenzio: così egli tornava alla vita dall'oscurità che lo aveva avvolto, ma la sua sorte era segnata da quel giorno, e non potrà essere divisa da quella della guerra che non si poteva vincere e che fino all'ultimo egli si rifiuterà di credere perduta. 

L'orgoglio 
Non è possibile rinnegare la guerra a chi ne fu straziato, né separasene quando sia entrata nelle carni, e per lui accettare la sconfitta sarebbe stato barattare l'orgoglio con la pietà. Niente può persuaderlo che la guerra, per cui non rivedrà più il sole, sia stata un errore o un inganno, e seguiterà a sperare anche quando la speranza sarà disperazione. Per questo alzerà la voce anche nel fragore del crollo, quando l'incitamento sarebbe stato, non soltanto inutile, ma assurdo. Per questo fu punito, e forse si volle sopprimerlo perché il suo grido, che era già un lamento, non diventasse un rimprovero, come se oggi non fosse più temibile il suo silenzio. «Restituiteci in misura d'amore ciò che abbiamo dato in misura di sangue», aveva detto chiedendo che i soldati fossero amati per quanto avevano sofferto. Gli fu risposto con tre attentati, ma egli si ostinò a credere che non si sarebbe osato ucciderlo, e solo un mese prima della morte fu avvertito in sogno che per l'invidia di Caino il sacrificio è un delitto da non essere perdonato. 

Lo spirito della gioventù 
Sognò di parlare, come infatti aveva parlato, dalla gradinata del monumento ai caduti di Monza, e la folla si precipitava su di lui, minacciosa e urlante. Lungi dal fuggire, le andava incontro gridando: «Perché mi uccidete? Io ho solo amato l'Italia». Proprio per questo doveva essere ucciso, e con lui non si spense soltanto una giovane vita, ma lo spirito della gioventù che oggi, muta e crucciata, si chiede a che valga credere e servire quando tutto l'oro del sole non valse a riscattare chi si era dato in ostaggio alla vittoria. 

lunedì 29 aprile 2013





MAI DIMENTICARE















Spara davanti a Palazzo Chigi: "Volevo uccidere un politico"

Mentre il governo giura al Quirinale, Luigi Preiti, disoccupato di 49 anni, fa fuoco contro due carabinieri: uno è gravissimo. Ferita pure una donna incinta. Preso l'aggressore


Roma - «Bastardi, infami maledetti. Mi avete rovinato. E adesso sparatemi, uccidetemi». Occhi sbarrati, allucinati. Il ghigno di morte accompagna l'urlo in faccia ai carabinieri di ronda a Palazzo Chigi che gli si accasciano tra i piedi, trafitti dal piombo della sua semiautomatica 7,65.

 
Luigi Preiti, l'uomo che ha sparato a due Carabinieri di fronte a Palazzo Chigi
«Bastardi...» borbotta lucido, puntando e sparando sei volte a bersagli mobili come se giocasse alla playstation o al tiro a segno al Luna Park.
«Bastardi...» è la sola cosa, ed è anche l'ultima, che riesce a proferire prima di finire faccia a terra, spiaccicato sui sanpietrini di piazza Colonna sotto il peso di un altro benemerito dell'Arma, incurante del fischio dei proiettili, svelto a saltargli addosso e a placcarlo come si fa nel rugby. «Bastardi...» sussurra quand'anche immobilizzato, con quel volto alla Diabolik rivolto sull'asfalto, vede la vita scorrere sottosopra: un povero cristo che agonizza a braccia aperte, un collega azzoppato e sanguinante, una mamma incinta contusa nella calca col marito che trascina il figlio abbandonando il passeggino. Eppoi i tre ciclisti ruzzolati di lato, turisti e passanti che scappano alla cieca, agenti armati a caccia di eventuali compari scontrarsi coi cameraman a caccia di uno scoop.
Solo quando lo tirano su per caricarlo a forza in ambulanza, il muratore Luigi Preiti, 49enne di Rosarno già residente a Predosa nell'Alessandrino, spiantato, drogato di gioco d'azzardo, senza più famiglia, senza moglie e figlio accanto, senza lavoro, insomma senza più speranze, capisce quel che ha combinato. «Volevo fare un gesto eclatante, non ce la facevo più. Perché non mi avete ammazzato? Io ci ho provato ma avevo sparato tutto, non c'era più niente nel caricatore» balbetta a caldo a chi gli sfila dalla tasca il portafogli per capire chi sia il rambo metropolitano, se uno squilibrato o un terrorista.
Perché davvero è un mistero quest'uomo che tra i palazzi romani del potere si presenta alle 11.40 con passo svelto, mani in tasca, indossando il vestito buono della domenica gonfiato da una rivoltella infilata alla cintola. Un uomo in realtà disperato, diretto al portone di Palazzo Chigi perché – confesserà qualche ora dopo – puntava ad ammazzare «il primo politico che mi capitava a tiro». La sua confessione dà i brividi e il senso di un'emergenza sociale che non conosce fine: «Non ho più niente, la mia vita è finita, mia moglie mi ha lasciato, non vedo più mio figlio di 10 anni.
Son tornato a vivere dai miei genitori in Calabria. Disperato, finito, morto. Ho programmato questa cosa più di 20 giorni fa, quando ho preso l'arma al mercato nero di Alessandria. Ce l'ho con la politica e con questi politici qua che hanno rovinato l'Italia. Volevo uccidere un politico, più di uno. Un gesto eclatante in un giorno importante. Ho sparato quand'ho capito che non mi facevano passare, ma io non ce l'ho coi carabinieri, ce l'ho con quelli lì, che non ci aiutano, non fanno nulla. Io non odio nessuno, odio i politici».
Se solo avesse fatto meglio i conti, optando per la piazza del Quirinale anziché per Palazzo Chigi, Preiti avrebbe avuto gioco facile andando incontro a ministri in pectore giungere a piedi, in taxi, con la propria auto, certamente senza scorta. I carabinieri sono stati dunque un intralcio al vendicatore solitario, vittime per caso di un piano studiato per lasciare il segno in contemporanea al giuramento dei ministri. Così Preiti è sfilato a metà mattinata davanti alla Camera proseguendo verso piazza Colonna e fermandosi di botto a due passi dall'obiettivo allorché i carabinieri del Reparto Toscana hanno chiesto ai passanti di non procedere oltre perché da quel momento il passaggio veniva chiuso al traffico pedonale. Quello stop ha mandato in tilt il killer. Ha capito che non ce l'avrebbe fatta a raggiungere il palazzo del governo e di fianco a un blindato dei carabinieri ha estratto l'arma e ha sparato con una professionalità tipica di un sicario della sua terra. Da dove, l'altra sera, dopo essersi fatto comprare il biglietto dalla madre, parte in treno diretto a Roma.
Lungo il tragitto Preiti inciampa addirittura in un controllo di routine della polizia ferroviaria che non avendo notato niente di anomalo o sospetto, ringrazia e prosegue. Sceso a Roma Termini si dirige all'hotel Concorde, due stelle a due passi dalla stazione. Alle 15.20 entra nella camera 522, vi resta due ore, esce ma torna subito, dopodiché si rinchiude fino alle 8.30 del mattino dopo. Paga in contanti, non fa colazione, saluta il portiere Hamdi sapendo che non sarebbe più tornato. Esce trascinando un trolley blu, che nessuno sa più dove sia finito. Dalle sette, invece, hanno già preso servizio i due militari predestinati a incrociare la follia omicida di un calabrese inesperto di questioni criminali, con un solo precedente penale per falso, che senza troppa difficoltà è riuscito a procurarsi una pistola punzonata, con matricola abrasa.
Il cinquantenne brigadiere Giuseppe Giangrande, siciliano, e il carabiniere scelto Francesco Negri, 30 anni di Torre Annunziata, 1.200 euro ognuno a fine mese, all'ora x del destino non hanno il tempo di capire. Una fitta al collo per il brigadiere, che all'ospedale Umberto I finisce sotto i ferri per una lesione alla colonna col rischio di restar paralizzato dopo aver perso la moglie nemmeno due mesi fa. Proiettili alle gambe del carabiniere scelto, ricoverato in codice rosso all'ospedale San Giovanni, frattura della tibia e tanto sangue perso, recita il referto. Se la caverà, il giovane Negri, giunto in barella insieme al suo attentatore dirottato in un'altra stanza del reparto stracolma di medici, carabinieri, magistrati e psichiatri.
L'alba di un nuovo governo tramonta nel peggiore dei modi, coi vecchi politici a rinfacciarsi le responsabilità della crisi, e il nuovo che avanza a negare d'aver soffiato sul fuoco per bruciare il Palazzo. Poteva andare peggio, si dirà. Come si era già detto a dicembre 2009 quando un altro svitato, Massimo Tartaglia, lanciò una statuetta sul volto di Silvio Berlusconi. Il clima d'odio da allora è cresciuto. Il far west di ieri disarma persino chi si ostina a sostenere il contrario.


IL SITO DEL CAMERATA SEBA E'INFINITAMENTE RATTRISTATO PER IL FERIMENTO DEI 2 CARABINIERI ED ESPRIME LA MASSIMA SOLIDARIETA'MA CONDANNA ANCHE LA CRIMINALE GESTIONE POLITICA DELLA NAZIONE COLPEVOLE DI SVENDERE ALLA SPECULAZIONE FINANZIARIA IL POPOLO ITALIANO MINANDO ALLE RADICI LA SUA STESSA ESISTENZA.

domenica 28 aprile 2013

 

 
 
28-04-1945----28-04-2013
 
CAMERATA MUSSOLINI  PRESENTE!!!!!!!!
 
 
 
 
 
 
LE 100 OPERE DEL DUCE
E’ stato fatto più in vent’anni di Fascismo che in sessant’anni di “democrazia”. Eccone un elenco schematico:

Opere sociali e sanitarie
1. Assicurazione invalidità e vecchiaia, R.D. 30 dicembre 1923, n. 3184
...
2. Assicurazione contro la disoccupazione, R.D. 30 dicembre 1926 n. 3158
3. Assistenza ospedaliera ai poveri R.D. 30 dicembre 1923 n. 2841
4. Tutela del lavoratore di donne e fanciulli R.D 26 aprile 1923 n. 653
5. Opera nazionale maternità ed infanzia (O.N.M.I.) R.D. 10 dicembre 1925 n. 2277
6. Assistenza illegittimi e abbandonati o esposti, R.D. 8 maggio 1925, n. 798
7. Assistenza obbligatoria contro la TBC, R.D. 27 ottobre 1927 n. 2055
8. Esenzione tributaria per le famiglie numerose R.D. 14 maggio 1928 n. 1312
9. Assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali, R.D. 13 maggio 1928 n. 928
10. Opera nazionale orfani di guerra, R.D.26 luglio 1929 n.1397
11. Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.), R.D. 4 ottobre 1935 n. 1827
12. Settimana lavorativa di 40 ore, R.D. 29 maggio 1937 n.1768
13. Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.), R.D. 23 marzo 1933, n. 264
14. Istituzione del sindacalismo integrale con l’unione delle rappresentanze sindacali dei datori di lavoro (Confindustria e Confagricoltura); 1923
15. Ente Comunale di Assistenza (E.C.A.), R.D. 3 giugno 1937, n. 817
16. Assegni familiari, R.D. 17 giugno 1937, n. 1048
17. I.N.A.M. (Istituto per l’Assistenza di malattia ai lavoratori), R.D. 11 gennaio 1943, n.138
18. Istituto Autonomo Case Popolari
19. Istituto Nazionale Case Impiegati Statali
20. Riforma della scuole “Gentile” del maggio 1923 (l’ultima era del 1859)
21. Opera Nazionale Dopolavoro (nel 1935 disponeva di 771 cinema, 1227 teatri, 2066 filodrammatiche, 2130 orchestre, 3787 bande, 1032 associazioni professionali e culturali, 6427 biblioteche, 994 scuole corali, 11159 sezioni sportive, 4427 di sport agonistico.). I comunisti la chiamarono casa del popolo
22. Guerra alla Mafia e alla Massoneria (vedi “Prefetto di ferro” Cesare Mori)
23. Carta del lavoro GIUSEPPE BOTTAI del 21 aprile 1927
24. Lotta contro l’analfabetismo: eravamo tra i primi in Europa, ma dal 1923 al 1936 siamo passati dai 3.981.000 a 5.187.000 alunni – studenti medi da 326.604 a 674.546 – universitari da 43.235 a 71.512
25. Fondò il doposcuola per il completamento degli alunni
26. Istituì l’educazione fisica obbligatoria nelle scuole
27. Abolizione della schiavitù in Etiopia
28. Lotta contro la malaria
29. Colonie marine, montane e solari
30. Refezione scolastica
31. Obbligo scolastico fino ai 14 anni
32. Scuole professionali
33. Magistratura del Lavoro
34. Carta della Scuola
Opere architettoniche e infrastrutture
35. Bonifiche paludi Pontine, Emilia, Sardegna, Bassa Padana, Coltano, Maremma Toscana, Sele ed appoderamento del latifondo siciliano. Con la fondazione delle città di Littoria, Sabaudia, Aprilia, Pomezia, Guidonia, Carbonia, Fertilia, Segezia, Alberese, Mussolinia (oggi Alborea), Tirrenia, Tor Viscosa, Arsia e Pozzo Littorio e di 64 borghi rurali, 1933 – 1939
36. Parchi nazionali del Gran Paradiso, dello Stelvio, dell’Abruzzo e del Circeo
37. Centrali Idroelettriche ed elettrificazione delle linee Ferroviarie
38. Roma: Viale della Conciliazione
39. Progetto della Metropolitana di Roma
40. Tutela paesaggistica ed idrologica
41. Impianti di illuminazione elettrica nelle città
42. Prosciugamento del Lago di Nemi (1931) per riportare alla luce navi romane
43. Creazione degli osservatori di Trieste, Genova, Merate, Brera, Campo Imperatore 51
44. Palazzo della Previdenza Sociale in ogni capoluogo di Provincia
45. Fondazione di 16 nuove Province
46. Creazione dello Stadio dei Marmi (di fronte allo stadio si trova ancora un enorme obelisco con scritto “Mussolini Dux”)
47. Creazione quartiere dell’EUR
48. Ideazione dello stile architettonico “Impero”, ancora visibile nei palazzi pubblici delle città più grandi
49. Creazione del Centro sperimentale di Guidonia (ex Montecelio), dotata del più importante laboratorio di galleria del vento di allora (distrutto nel 1944 dalle truppe tedesche che abbandonavano Roma)
50. Costruzione di numerose dighe
51. Fondò l’istituto delle ricerche, profondo stimatore di Marconi che mise a capo dello stesso istituto grazie alla sua grandiosa invenzione della radio e dei primi esperimenti del radar, non finiti a causa della sua morte
52. Costruzione di molte università tra cui la Città università di ROMA
53. Inaugurazione della Stazione Centrale di Milano nel 1931 e della Stazione di Santa Maria Novella di Firenze
54. Costruzione del palazzo della Farnesina di Roma, sede del Ministero degli Affari Esteri
55. Opere eseguite in Etiopia:
60.000 operai nazionali e 160.000 indigeni srotolarono sul territorio più di 5.000 km di strade asfaltate e 1.400 km di piste camionabili. Avevano trasformato non solo Addis Abeba, ma anche oscuri villaggi in grandi centri abitati (Dessiè, Harar, Gondar, Dire, Daua). Alberghi, scuole, fognature, luce elettrica, ristoranti, collegamenti con altri centri dell’impero, telegrafo, telefono, porti, stazioni radio, aeroporti, financo cinematografi e teatri. Crearono nuovi mercati, numerose scuole per indigeni, e per gli indigeni crearono: tubercolosari, ospizi di ricovero per vecchi e inabili al lavoro, ospedali per la maternità e l’infanzia, lebbrosari. Quello di Selaclacà: oltre 700 posti letto e un grandioso istituto per studi e ricerche contro la lebbra. Crearono imprese di colonizzazione sotto forme di cooperative finanziate dallo stato, mulini, fabbriche di birra, manifatture di tabacchi, cementifici, oleifici, coltivando più di 75.000 ettari di terra.
56. Sviluppo aeronautico, navale, cantieristico


Opere politiche e diplomatiche
57. Patti Lateranensi, 11/02/1929
58. Tribunale del popolo 59. Tribunale speciale
60. Emanò il codice penale (1930), il codice di procedura penale (1933, sostituito nel 1989), il codice di procedura civile (1940), il codice della navigazione (1940), il codice civile (1942) e numerose altre disposizioni vigenti ancora oggi (il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, il Codice della Strada, le disposizioni relative a: polizia urbana, rurale, annonaria, edilizia, sanitaria, veterinaria, mortuaria, tributaria, demaniale e metrica)
61. Conferenza di Losanna
62. Conferenza di Locarno
63. Conferenza di Stresa
64. Patto a quattro
65. Patto anti-Comintern

Opere espansionistiche
66. Riconquista della Libia
67. Conquista dell’Etiopia
68. Guerra di Spagna

Opere economiche e finanziarie
69. Istituto di Ricostruzione Industriale (I.R.I.), 1932
70. Istituto Mobiliare Italiano (I.M.I.), 1933
71. Casse Rurali ed Artigiane, R.D. 26 agosto 1937, n. 1706
72. Riforma bancaria: tra il 1936 e il 1938 la Banca d’Italia passò completamente in mano pubblica e il suo Governatore assunse il ruolo di Ispettore sull’esercizio del credito e la difesa del risparmio
73. Socializzazione delle imprese. Legge della R.S.I., 1944
74. Parità aurea della lira
75. Battaglia del grano
76. 1929: crisi finanziaria mondiale.
Il mondo del capitalismo è nel caos: il Duce risponde con 37 miliardi di lavori pubblici e in 10 anni vengono costruite 11.000 nuove aule in 277 comuni, 6.000 case popolari che ospitano 215.000 persone, 3131 52
fabbricati economici popolari, 1.700 alloggi, 94 edifici pubblici, ricostruzione dei paesi terremotati, 6.400 case riparate, acquedotti, ospedali, 10 milioni di abitanti in 2493 comuni hanno avuto l’acqua assicurata, 4.500 km di sistemazione idrauliche e arginature, canale Navicelli; nel 1922 i bacini montani artificiali erano 54, nel 1932 erano arrivati a 184, aumentati 6 milioni e 663 mila k.w. e 17.000 km di linee elettriche; nel 1932 c’erano 2.048 km di ferrovie elettriche per un risparmio di 600.000 tonnellate di carbone; costruiti 6.000 km di strade statali, provinciali e comunali, 436 km di autostrade. Le prime autostrade in Italia furono la Milano-Laghi e la Serravalle-Genova (al casello di Serravalle Scrivia si trova una scultura commemorativa con scritto ancora “Anno di inizio lavori 1930, ultimato lavori 1933”)
77. Salvò dalla bancarotta l’Ansaldo, il Banco di Roma e l’Ilva (1923-24) 78. Attacco al latifondo siciliano
79. Accordi commerciali con tutti gli Stati compreso l’Urss
80. Pareggio di bilancio già dal 1924

Opere sportive e culturali
81. Costruzione dell’Autodromo di Monza, 10/09/1923
82. Fondazione di CINECITTA’
83. Creazione dell’ente italiano audizione radiofoniche (EIAR), anno 1927
84. Primi esperimenti della televisione che risalgono all’anno 1929 per volere del Duce; nel dicembre del ’38 l’ufficio stampa dell’EIAR comunicò che nei primi mesi del ’39 sarebbero iniziati servizi regolari di televisione. Il 4 giugno 1939 alla Mostra del Leonardo ci furono alcune trasmissione sperimentali, sul Radiocorriere apparvero i programmi e persino le pubblicità di alcuni paleolitici apparecchi televisivi. Purtroppo il progetto venne abbandonato a causa dell’entrata in guerra
85. Istituzione della Mostra del Cinema di Venezia, prima manifestazione del genere al mondo, nata nel 1932 per opera del direttore dell’Istituto Luce, De Feo, e dell’ex ministro delle Finanze Giovanni Volpi di Misurata
86. Creazione dell’albo dei giornalisti, anno 1928
87. Fondazione dell’istituto LUCE, anno 1925
88. Nel 1933 appoggiò la prima trasvolata atlantica compiuta da Italo Balbo (tra l’altro, fu in quella occasione che venne inaugurata la “posta aerea”)
89. Accademia d’Italia (Marconi, Pirandello, Mascagni, ecc.)
90. Littoriali della cultura e dell’arte

Opere di utilità varie
91. Registro per armi da fuoco
92. Istituzione della guardia forestale
93. Istituzione dell’archivio statale, anno 1923
94. Fondazione della FAO
95. Fondazione dei consorzi agrari
96. Annessione della Guardia di Finanza nelle forze armate
97. Istituzione di treni popolari per la domenica con il 70% di sconto, anno 1932
98. Istituì il Corpo dei Vigili del Fuoco.
99. Ammodernò il Pubblico Catasto urbano e dei terreni
100. Mappò tutto il territorio nazionale compilando le mappe altimetriche usate ancora oggi, e che non sono mai state aggiornate da allora.

sabato 27 aprile 2013



E ora che il matrimonio gay è legge? Vescovo francese: «Ciò che è legale non è per forza anche morale»
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Il matrimonio gay è legge in Francia. «E ora che cosa facciamo?», si chiede in un comunicato ai fedeli della sua diocesi il vescovo di Metz Pierre Raffin. «I nostri governanti sono riusciti a imporre al nostro paese il “matrimonio per tutti”, nonostante la maggioranza dei francesi fosse contraria (…). Ricordiamoci che ciò che è legale non è per forza anche morale. Ci possono infatti essere delle leggi che la nostra coscienza rifiuta di ritenere giuste, non solo perché sono contrarie alle nostre convinzioni religiose, ma perché sono contrarie a quella legge naturale che è iscritta nel cuore di tutti gli esseri umani».
TESTIMONIANZA. Il vescovo di Metz ricorda l’importanza, in situazioni simili, della testimonianza da parte dei cristiani: «La storia della Chiesa ci ricorda che i cristiani sono morti martiri per essersi rifiutati di obbedire alle leggi dello Stato che offendessero le loro convinzioni religiose (sacrifici agli idoli, mancato rispetto della domenica). Ci insegna anche che con la loro testimonianza silenziosa e la rettitudine dei comportamenti i cristiani hanno trasformato la società civile. (…) Non vergogniamoci quindi delle nostre convinzioni sulla famiglia e il matrimonio», perché queste mostrano la vera natura della famiglia e dell’uomo.
QUATTRO VERITÀ. Perché? Monsignor Raffin elenca quattro punti: «Primo. Tutte le persone umane hanno un sesso, maschio o femmina. E non in virtù di una decisione personale ma per nascita. (…) Secondo. La famiglia è fondata da un uomo e una donna che si amano e si impegnano in una relazione duratura assumendosi la responsabilità di crescere i figli che possono nascere dalla loro unione. Questa responsabilità non è solo di ordine privato: ha anche una dimensione sociale che le leggi dello Stato riconoscono, come anche la Francia aveva fatto fino ad ora (…). Terzo. Il figlio non è un diritto, è il frutto dell’amore tra un uomo e una donna. Per la sua crescita umana e spirituale il bambino ha bisogno di un padre e di una madre. Nessuna manipolazione tecnica potrà cancellare questa realtà fondamentale. Quarto. I genitori sono i primi educatori dei loro figli. Certo, devono essere sostenuti dalle istituzioni della Repubblica, ma queste non possono privare i genitori del loro diritto fondamentale di educare i propri figli».
RESISTENZA CONCRETA. Cosa è chiesto, dunque, ai cristiani francesi ora che la legge sul matrimonio gay è stata approvata? «Resistere a queste circostanze non significa essere violenti come gli zeloti al tempo di Gesù, ma avere la forza tranquilla dei beati, fondata sulla riflessione, il discernimento, la meditazione delle Scritture e la preghiera. I beati non fanno affidamento su quello che il mondo pensa, dice e fa. E non prendono per acquisito ciò che l’opinione comune considera una evidenza o una certezza ma si lasciano condurre dallo Spirito Santo verso la verità tutta intera».
Un concetto tutt’altro che astratto perché, conclude il vescovo, «questa resistenza che ha una dimensione politica dovrà presto o tardi incarnarsi in impegni concreti. Ma organizzarla non è un compito che spetta ai pastori della Chiesa».


http://www.tempi.it/e-ora-che-il-matrimonio-gay-e-legge-vescovo-francese-cio-che-e-legale-non-e-per-forza-anche-morale#.UXus2JOGGSo

giovedì 25 aprile 2013

Giuseppe Solaro. I ribelli siamo noi (Aprile 1945)





I veri ribelli in sostanza siamo Noi. Noi globalmente chiamati Nazi-Fascisti. In realtà ci ribelliamo all’opinione universalmente diffusa di essere ormai boccheggianti e prossimi alla fine o come scrive il “Grido di Spartaco” da dodici mesi senza mutare un rigo, di essere la belva agli ultimi rantoli. Ci ribelliamo ogni momento anche al cosiddetto buon senso comune che in quel determinato momento coglie circostanza a noi avverse.
Come pensare, dice l’uomo di strada, che tedeschi, nipponici e italiani possano resistere all’America, indisturbata nelle sue fonti di produzione bellica alimentate da esuberanti dotazioni di materie prime, a un’Inghilterra seminatrice di doviziose armate d’ogni colore attinte alle immense colonie, a una Russia formidabile di uomini e di ordigni di guerra, a tre potenze di tutte munite, padrone di tre quarti del mondo, credute persino nel loro programma di liberazione.
Nondimeno ci ribelliamo ai colpi avversi della sorte, alla fortuna, all’incredulità degli altri nella nostra certezza e sulla nostra fede.
Ci ribelliamo alle prospettive di tremende punizioni che ci attenderebbero a breve scadenza.
Ci ribelliamo pure all’antipatia e al vuoto che ci crea intorno una turba di vigliacchi timorosi persino di riconoscere almeno il nostro valore con una parola o un sorriso, perchè questo potrebbe pesare all’arrivo degli anglo-americani.
Noi siamo i veri ribelli.
Per gli altri è facile farsi chiamare ribelli quando si crede di avere la vittoria in pugno, quando si crede di avere eserciti amici a pochi giorni di marcia. E’ piacevole farsi chiamare ribelli quando si è circondati dalle premure di tanti pavidi che intendono crearsi benemerenze verso il cavallo vincente.
I veri ribelli siamo noi.
Ribelli contro un mondo vecchio di egoisti, privilegiati, conservatori, capitalisti oppressori, di falliti sistemi, di falsi e bugiardi.
Ribelli contro un mondo di ingiustizia.
Ribelli in nome della santa causa, di una giusta società e ordinata, di rispetto del lavoro e della dignità nazionale, di amor di Patria e del senso familiare.
Giuseppe Solaro (Delegato del Partito Fascista Repubblicano Piemontese)
Torino, Aprile 1945

mercoledì 24 aprile 2013


LE STRAGI DIMENTICATE
 

 
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 i caduti della R.S.I., come altrove si è detto, assommarono a diverse decine di migliaia. Centomila è la cifra che, presumibilmente, si avvicina di più alla realtà. Molti caddero in combattimento, molti furono uccisi dai partigiani in un agguato, molti civili furono prelevati nelle loro case e uccisi con un colpo alla nuca.  Molti, invece, furono trucidati a guerra finita, in una serie di episodi dove l’odio e lo spirito di vendetta,

ma anche il disegno preordinato dei partigiani comunisti, guidarono la mano di uomini che con ferocia bestiale infierirono su giovani soldati che, fidando nelle condizioni di resa stabilite, avevano deposto le armi nelle mani dei cosiddetti Comitati di Liberazione o di bande partigiane. Dopo qualche tempo dalla fine del conflitto (specialmente dopo il 18 aprile 1948), molti di quei crimini furono denunciati e la magistratura pronunciò anche diverse  sentenze di condanna. I responsabili della strage di Oderzo, ad esempio, nelle persone di Adriano Venezian (Biondo), Giorgio Pizzoli (Gim), Silvio Lorenzon (Bozambo), De Ros (Tigre), Diego Baratella (Jack) vennero riconosciuti colpevoli di omicidio aggravato e continuato e condannati, il 16 maggio 1953, a pene varianti dai 24 (Jack) ai 28 (Tigre) ai 30 anni (tutti gli altri). Ma le amnistie e gli indulti succedutisi a ritmo febbrile su pressione dei comunisti, fecero sì che i cinque dopo pochi anni vennero scarcerati e ricevuti a Botteghe Oscure con tutti gli onori da Togliatti, Longo e Pajetta. Malgrado tutte le amnistie e tutti gli indulti, tuttavia, alcune condanne rimasero da scontare, ma il sollecito Partito Comunista di Togliatti provvide a far espatriare clandestinamente i condannati verso la Jugoslavia e la Cecoslovacchia. Cosicchè pochissimi di quei criminali hanno espiato le loro colpe. Ciò fu facile perché i partigiani, anche se imputati di gravi crimini, non potevano essere arrestati. Il Decreto Luogotenenziale 6 settembre 1946 n. 96, infatti, all’articolo 1 recitava: “”…non può essere emesso un mandato di cattura, e se è stato emesso deve essere revocato, nei confronti di partigiani, dei patrioti e (degli altri cittadini che li abbiano aiutati) per i fatti da costoro commessi durante l’occupazione nazifascista e successivamente sino al 31 luglio 1945…””
 Qui si vogliono ricordare alcuni di quegli orrendi assassinii. 

La strage di Oderzo (Treviso)

Negli ultimi giorni di aprile del 1945, esattamente il 28, 126 giovani militi dei Btg. “Bologna” e “Romagna” della GNR e 472 uomini della Scuola Allievi Ufficiali di Oderzo della R.S.I. (450 allievi più 22 ufficiali) si arresero al C.L.N. con la promessa di avere salva la vita. L’accordo fu sottoscritto nello studio del parroco abate mitrato Domenico Visentin, presenti il nuovo sindaco di Oderzo Ing. Plinio Fabrizio, Dr. Sergio Martin presidente del C.L.N., il Col, Giovanni Baccarani, comandante della Scuola di Oderzo e il maggiore Amerigo Ansaloni comandante del Btg. Romagna. Ma quando scesero i partigiani della Brigata Garibaldi “Cacciatori della pianura” comandati dal partigiano Bozambo l’accordo fu considerato carta straccia e il 30 aprile cominciarono a uccidere. Quel giorno furono massacrati senza pietà 13 uomini sulle rive del Monticano. La maggior parte, ben 100,  furono uccisi al Ponte della Priula, frazione di Susegana e gettati nel Piave il 12 maggio. Pare si trattasse di 50 uomini del “Bologna”, 23 del “Romagna”, 12 della Brigata Nera, 4 della X^ MAS, e gli altri di altri reparti fra cui gli allievi della scuola.   Infine:
LA BANDA DI “BOZAMBO”, “BOIA DI MONTANER”, AL MATRIMONIO TRA ADRIANO VENEZIAN E VITTORINA ARIOLI, ENTRAMBI PARTIGIANI
Al banchetto di addio al celibato di Venezian uno della banda affermò :- Ti auguriamo che tu abbia ad avere dodici figli e perché questo augurio abbia ad essere consacrato domandiamo che siano uccisi, vittime di propiziazione, dodici fascisti -.
Fu così che la mattina del 17 maggio scelsero tredici allievi ufficiali della Scuola di Oderzo e li assassinarono nei pressi del Ponte della Priula. (Particolare delle stragi di Oderzo).
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)
Vedi anche, qui appresso i caduti sulla corriera della morte. In totale le vittimo fra gli ufficiali della scuola di Oderzo furono 144. 
La corriera della morte
Verso la metà di maggio (esattamente nella notte fra il 14 e il 15) tre camion della Pontificia Opera di Assistenza venivano dal bresciano e trasportavano verso sud reduci della R.S.I. che cercavano di rientrare a casa. Uno veniva da Rezzato, uno da Erbusco e uno da Brescia. Su quest’ultimo c’erano anche 15 o 16 allievi della scuola di Oderzo. A Bondanello, però, la polizia  partigiana che aveva sede nella casa del popolo di Moglia, fermò i camion (almeno due). Il primo, proveniente da Brescia trasportava 43 persone. Queste furono consegnate alla polizia partigiana di Concordia che ne rinchiuse 25 (pare) a Villa Medici, ribattezzata “Villa del pianto”. Questi furono depredati di tutto e massacrati il 17 maggio.  Gli altri, due notti dopo, vennero caricati su un camion e fatti proseguire per Carpi . Ma giunti a San Possidonio furono scaricati, condotti a gruppi nella campagna circostante, depredati, seviziati e uccisi. Era la notte del 19 maggio. Fra tanto orrore un fatto ancora più orrendo: fra quei poveretti c’era anche una giovane donna con marito e figlio. Questi ultimi finirono massacrati con gli altri. La donna, al sesto mese di gravidanza, fu violentata da nove uomini e poi abbandonata in stato confusionale davanti ad un albergo di Modena. Dalle risultanze processuali pare che gli uccisi fossero, in totale, più di ottanta. Diversi responsabili furono identificati ma, come al solito, pur essendo stati ritenuti colpevoli, beneficiarono dell’amnistia (e del minaccioso sostegno del partito comunista) e rimasero impuniti.
Gli uccisi di Pescarenico (Lecco)
La sera del 26 aprile transitò per Lecco una colonna di 160 uomini del Gruppo Corazzato “Leonessa” e del Btg. “Perugia” che ripiegava su Como. A Pescarenico furono attaccati dai partigiani. Asserragliati in alcune case i militi si difesero per tutta la notte e per tutto il giorno 27. A sera, avendo quasi esaurite le munizioni, fu trattata la resa. Le condizioni erano che i militi dovevano avere la libertà e gli ufficiali la prigionia secondo la Convenzione di Ginevra. Dopo la resa tutti gli uomini furono picchiati e insultati e minacciati tutti di morte. Il giorno 28 i tredici ufficiali e tre vice brigadieri furono uccisi. Prima di morire lasciarono ai religiosi che li assistettero,
toccanti lettere per i familiari.
La strage di Monte Manfrei (Savona)
In questo luogo isolato dell’Appennino Ligure, fra Genova e Savona, nei giorni tragici di fine aprile, primi maggio 1945, i partigiani trucidarono  i 200 marò del presidio di Sassello della Divisione “San Marco”, quando la guerra si era ormai conclusa. I cadaveri, sepolti sotto poca terra nei dintorni, non sono stati ancora rinvenuti tutti, anche per l’omertà delle popolazioni, minacciate ancora adesso dagli assassini dell’epoca. Una grande croce ricorda ora i caduti e ogni anno, l’8 luglio, numerose persone salgono lassù e li ricordano con una toccante cerimonia.
La strage di Rovetta (Bergamo)
Il 26 aprile 1945 un plotone della 6^ Compagnia della Legione Tagliamento di presidio al Passo della Presolana, al quale si aggiunsero alcuni militi della 5^, sentite le notizie della disfatta tedesca decise, malgrado la contrarietà di alcuni, di arrendersi, sollecitato in tal senso anche dal Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava i militi e si diresse verso Clusone. Ma, giunti a Rovetta (BG), trattarono la resa col locale C.L.N. che promise un trattamento conforme alle convenzioni internazionali. Erano 46 militi  comandati dal giovane S.Ten. Panzanelli di 22 anni. Deposte le armi, furono alloggiati nelle locali scuole elementari. Il prete del luogo, Don Giuseppe Bravi, era anche segretario del C.L.N. locale e garantiva il rispetto degli accordi. Ma una masnada di feroci partigiani, giunti da Lovere su due camion, impose la consegna dei prigionieri e il 28 aprile, dopo feroci maltrattamenti, 43 di loro (uno, Fernando Caciolo, della 5^ Cmp, sedicenne di Anagni, riuscì a fuggire e tre giovanissimi, Chiarotti Cesare, 1931, di Milano, Ausili Enzo, 1928, di Roma e Bricco Sergio, 1929, di Como, vennero risparmiati) vennero condotti presso il cimitero di Rovetta e qui fucilati. Ben 28 di loro avevano meno di 20 anni. L’ultimo ad essere ucciso, dopo aver assistito alla morte di tutti i camerati, fu il Vice brigadiere Giuseppe Mancini, figlio di Edvige Mussolini sorella del Duce.
 Dopo la guerra alcuni di quei partigiani ritenuti responsabili della strage furono individuati e processati. Ma la sentenza fu di non luogo a procedere in forza del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12 aprile 1945, firmato da Umberto di Savoia, che in un unico articolo dichiarava non punibili le azioni partigiane di qualsiasi tipo perché da considerarsi “azioni di guerra”. Fu, cioè, dalla viltà dei giudici, considerata azione di guerra legittima anche il massacro di prigionieri inermi compiuta, per giunta, quando la guerra era ormai terminata.

Vedi l’elenco degli uccisi
(Redatto con la collaborazione del ricercatore Giuliano Fiorani) 
La strage di Lovere (Bergamo)
Mercoledì 25 aprile 1945 un piccolo presidio della Legione “Tagliamento”, 26 militi della 4^ Cmp, II Rgt, di stanza nell’edificio delle scuole elementari a Piancamuno in Val Canonica venne sorpreso da un gruppo di partigiani fra i quali erano dei polacchi in divisa tedesca. Malgrado la sorpresa i militi reagiscono, ma le perdite sono gravi : 9 morti fra cui il comandante aiutante maresciallo Ernesto Tartarini e tre feriti. Anche il comandante partigiano, però, tale Luigi Macario, viene ucciso insieme ad altri due, cosicché i partigiani, rimasti senza comandante, cedono al fuoco intenso dei militi superstiti e si ritirano. A questo punto giunge in aiuto una squadra del plotone Guastatori al comando del brigadiere Amerigo De Lupis.
 Egli si rende conto che i tre feriti che giaccioni all’Ospedale di Darfo non hanno una assistenza adeguata. Uno dei tre, infatti, Sandro Fumagalli, muore la mattina del 26. Allora nel pomeriggio il De Lupis, con una piccola scorta, porta i due feriti ancora vivi all’Ospedale di Lovere, sul lago d’Iseo. Ma egli non sa che i partigiani stanno occupando la città. Al mattino, infatti, il locale presidio del 612° Comando Provinciale della G.N.R. comandato dal Ten. Agostino Ginocchio si è arreso a un gruppo di partigiani e altri partigiani stanno affluendo dalle montagne. Così il De Lupis e i suoi uomini vengono sorpresi all’uscita dall’Ospedale e catturati. Condotti presso la casa canonica (Palazzo Bazzini) che veniva utilizzata come prigione, vennero rinchiusi insieme agli uomini del Ten. Ginocchio. Testimoni dell’epoca affermano che ai prigionieri vennero inflitti pesanti maltrattamenti. Il 30 aprile un legionario, Giorgio Femminini di 20 anni, ottenne di potersi sposare con la sorella di un commilitone, Laura Cordasco, così fu condotto in chiesa col De Lupis e il commilitone Vito Giamporcaro come testimoni. Ma poichè la cerimonia si prolungava i partigiani condussero via tutti gli uomini del De Lupis e li portarono dietro il cimitero dove furono massacrati con raffiche di mitra.  Gli uccisifurono sei: Amerigo De Lupis, Aceri Giuseppe, Femminini Giorgio, Mariano Francesco, Giamporcaro Vito, Alletto Antonino. I due legionari: Le Pera Giovanni e De Vecchi Francesco, ricoverati, come si è detto, in ospedale per gravi ferite, furono quasi ogni giorno percossi e maltrattati e, infine, prelevati da partigiani fra il 7 e l’ 8 di Giugno, oltre 40 giorni dopo la fine della guerra, percossi, seviziati e, infine, gettati nel lago e annegati.
Vedi la documentazione.
(redatto con la collaborazione preziosa di Giuliano Fiorani e Sergio Geroldi) 
massacrati di Ponte Crenna (Pavia)Il 12 agosto 1944 quattro giovani militi venivano catturati dai partigiani e barbaramente assassinati a Ponte Crenna nell’Oltrepo Pavese. Fra essi Walter Nannini, medaglia d’Argento alla memoria.
La strage di S.Eufemia e Botticino Sera (Brescia)
Fra il 9 e il 13 maggio 1945 furono prelevati 11 fascisti a Lumezzane e altri a Toscolano Maderno. Orribilmente seviziati, 23 vennero uccisi proprio di fronte alla chiesa di S.Eufemia mentre altri 16 vennero uccisi e gettati in una fossa a Botticino, in una località detta Mulì de l’Ora. I civili erano 16 e 23 i militari di cui 9 erano della Divisione San Marco. I cadaveri furono ritrovati in stato di avanzata decomposizione, con tracce di inaudita violenza e le unghie strappate. Autori dell’eccidio furono i partigiani comandati da tale Tito Tobegia.
 

 

L’eccidio dell’Ospedale psichiatrico di Vercelli

  Nei giorni dal 23 al 26 aprile 1945 si erano concentrate a Vercelli tutte le forze della R.S.I. della zona, circa 2000 uomini, che andarono a costituire la Colonna Morsero, dal nome del Capo Provincia di Vercelli Michele Morsero. Tale colonna partì da Vercelli alle ore 15 del 26 aprile, dirigendo verso nord per raggiungere la Valtellina. I reparti che costituivano la colonna erano : Il 604° Comando Provinciale GNR Vercelli Comandato dal Colonnello Giovanni Fracassi, la VII^ B.N. “Punzecchi di Vercelli, parte della XXXVI^ B.N. “Mussolini” di Lucca, CXV° Btg “Montebello”, I° Btg granatieri “Ruggine”, I° Btg d’assalto”Ruggine”, I° Btg rocciatori (poi controcarro) “Ruggine”, III° Btg d’assalto “Pontida”. La colonna raggiunse Castellazzo, a Nord di Novare, la mattina del 27 aprile e, dopo trattative, la sera decise, dopo molte incertezze, di arrendersi ai partigiani di Novara dietro promessa di essere trattati da prigionieri di guerra. Il 28 aprile i prigionieri vengono condotti a Novara e rinchiusi in massima parte nello stadio. Subito cominciarono gli insulti e i maltrattamenti e il 30 cominciarono i prelevamenti di gruppi di fascisti dei quali non si ebbe più notizia. Lo stesso accadde nei giorni successivi insieme a feroci pestaggi. Il 2 maggio Morsero viene portato a Vercelli e fucilato. Intanto sono giunti gli americani che tentano di ristabilire un minimo di legalità. Ma il Corriere di Novara dell’8 maggio parla di molti cadaveri di fascisti ripescati nel canale Quintino Sella. Finché il 12 maggio giungono da Vercelli i partigiani della 182^ Brigata Garibaldi di “Gemisto” cioè Francesco Moranino che prelevano circa 140 fascisti elencati in una loro lista. Questi uomini saranno le vittime della più incredibile ferocia. Portati all’Ospedale Psichiatrico di Vercelli saranno, in buona parte massacrati all’interno di questo. Le pareti dei locali dove avvenne l’eccidio erano lorde di sangue fino ad altezza d’uomo. Altri saranno schiacciati in un cortile da un autocarro, altri fucilati nell’orto accanto alla lavanderia, altri, pare tredici,  fucilati a Larizzate e altri ancora, infine, portati con due autocarri e una corriera (quindi in numero rilevante) al ponte di Greggio sul canale Cavour e qui, a quattro a quattro, uccisi e gettati nel canale. Nei giorni successivi i cadaveri ritrovati nei canali di irrigazione alimentati dal canale Cavour furono più di sessanta.
 Solo il giorno 13 maggio, domenica, gli americani prenderanno il controllo dei prigionieri ed eviteranno altri massacri. Era già pronta la lista dei prigionieri da prelevare quello stesso giorno alle ore 18.
 

 

Il massacro di Schio (Vicenza)

La notte fra il 6 e il 7 luglio 1945 una pattuglia partigiana irruppe nel carcere di Schio dove erano detenute 91 persone, fascisti o presunti tali. (1) Di queste, che erano state radunate in uno o due stanzoni e contro cui furono sparate molte raffiche di mitra, ne furono massacrate ben  54 di cui 19 donne, mentre 14 rimasero ferite (11 in modo grave). Il tribunale militare alleato individuò alcuni degli esecutori materiali del crimine ed emise alcune condanne, però mai eseguite.  Dai dibattimenti emerse che molte di quelle persone non avevano alcuna colpa e nei loro confronti era già pronto l’ordine di scarcerazione. Il governatore militare alleato ebbe ad affermare che i fatti di Schio “costituiscono una macchia per l’Italia ed hanno avuto una larga pubblicità nei giornali statunitensi, britannici e sudafricani dove vengono considerati senza attenuanti ”.

Note: (1) 5 erano della Brigata Nera, 3 della Polizia Ausiliaria, 3 Ausiliarie, 34 fascisti e gli altri arrestati come tali, su semplice indicazione di un partigiano. C’erano ragazze diciassettenni, donne gravide, vecchi…Fra loro c’erano: Il Primario dell’Ospedale di Schio Dr. Michele Arlotta, il Commissario Prefettizio Dr. Giulio Vescovi, i fascisti RSI Mario Plebani, Tadiello Rino, Domenico e Isidoro Marchioro, il Dr. Diego Capozzo, Vice Comm.Pref., Anna Franco di 16 anni, Calcedonio Pillitteri, reduce dalla Russia, il vecchio Dr. Antonio Sella, che fu Podestà di Valoli del Pasubio, Giuseppe Stefani già Podestà di Valdastico. (da “Nuovo Fronte” n. 247 del Giugno 2005, pag. 10 , articolo firmato U.S.)
 

Il massacro diAvigliana (Torino)

Qui furono uccisi, a guerra finita, dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati, 33 militari della R.S.I.

I morti di Agrate Conturbia (NO)
“Caduti per la Patria” sta scritto su una croce che fa la guardia a 33 salme di fascisti
senza nome (fra cui due o tre donne), trucidati nel sottostante bosco detto “la Bindillina”  dai partigiani della zona. Solo nel 1959 fu possibile individuarle in fosse comuni e riesumarle. Ma si presume che gli uccisi il quel bosco siano stati molti di più, forse alcune centinaia. Infatti negli anni novanta, durante la costruzione di un campo da golf, vennero trovate molte ossa umane che, molto disinvoltamente, vennero gettate in una discarica insieme alle sterpaglie. (Nuovo Fronte n. 247 Giugno 2005)
 

 

I feroci massacri del Biellese

A Bocchetta Sessera (Vercelli) una stele ricorda le decine di cadaveri di fascisti, non solo uomini ma anche  donne, stuprate e seviziate prima di essere uccise, che si presume ancora si trovino nel bosco sottostante. Fu questa, una delle zone dove la ferocia partigiana toccò livelli inimmaginabili. Qui operava Francesco Moranino detto Gemisto che, ricordiamolo, nel 1955 fu condannato all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Firenze per strage di partigiani non comunisti e che fuggì a Praga, da dove rientrò in Italia dopo che il P.C.I. lo ebbe fatto eleggere Senatore
Gli N.P. trucidati a Valdobbiadene (Treviso)
Qui, dopo che il 9 marzo 1945 il grosso del Btg N.P. della X^ fu trasferito sul fronte del Senio, rimasero a presidio soltanto 45 marò. Essi, che avevano sempre vissuto in buona armonia con la popolazione e, quindi, pensavano di non avere nulla da temere, dopo il 25 aprile, a guerra finita, si consegnarono ai partigiani della Brigata “Mazzini” (Comandante Mostacetti). Ma nella notte fra il 4 e il 5 maggio essi furono divisi in tre gruppi per essere, si disse loro, trasferiti altrove. Il primo gruppo fu condotto in località Saccol di Valdobbiadene, spinto in una galleria e, qui, trucidato a colpi di mitra e di bombe a mano. La galleria, poi, fu fatta saltare per occultare il crimine. Il secondo gruppo fu condotto in località Medean di Comboi. Qui ai marò vennero legate le mani dietro la schiena con filo di ferro, indi, dopo essere stati depredati, vennero uccisi e bruciati. Stessa sorte ebbe il terzo gruppo, condotto in località Bosco di Segusino.

L’eccidio del 2° R.A.U.
Gli uomini del 2° R.A.U. ( Reparti Arditi Ufficiali) appartenente al R.A.P (Raggruppamento Anti Partigiano), che operava in Piemonte, si arresero ai partigiani il 27 aprile a Cigliano, a nord di Torino, essendo stato promesso il trattamento dovuto ai prigionieri di guerra e l’onore delle armi. Ma il 29 vengono divisi in due gruppi: nel primo vengono inclusi quasi tutti gli ufficiali, le ausiliarie e due signore mogli di ufficiali, nel secondo gli altri. Il primo gruppo viene condotto a Graglia fra inauditi maltrattamenti, senza cibo ne acqua per tre giorni. Fu negata l’acqua anche alla signora Della Nave, incinta. Il 2 di Maggio 1945 furono divisi in tre gruppi: il primo fu condotto al ruscello che divide il comune di Graglia da quello di Netro, il secondo in località Paiette e il terzo alla Cascina Quara presso il Santuario. E furono tutti trucidati. Oggi tutte le salme riposano in una tomba-ossario nel cimitero di Graglia dove una lapide bronzea recante il gladio della R.S.I. che ne ricorda il sacrificio.

L’eccidio dei fratelli Govoni
Alle ore 23 dell’11 Maggio 1945, venerdì, ad Argelato (Bologna), frazione Casadio, podere Grazia, assieme al altri dieci fascisti prelevati a San Giorgio in Piano, partigiani emiliani trucidavano, dopo averli condotti, legati a 3 a 3, presso una fossa anticarro, i sette fratelli Govoni che erano stati prelevati a Pieve di Cento la mattina alle 6,30 : Dino, 40 anni, falegname, Marino, 34 anni, contadino, Emo, 31 anni, falegname, Giuseppe, 29 anni, contadino,  Augusto, 27 anni, contadino, Primo, 22 anni, contadino e Ida, di appena venti anni, sposata ad Argelato e madre di un bambino. Prima della morte tutti furono picchiati a sangue e seviziati in vario modo. Solo Dino e Marino avevano militato nella R.S.I., Marino come brigadiere della G.N.R. e Dino come semplice milite. Nel 1951, quando fu scoperta la fossa dove giacevano i corpi dei 7 fratelli insieme a quelli degli altri dieci fascisti, si scoprì lì vicino un’altra fossa con i resti di 25 cadaveri.

Gli uccisi del XIV Btg Costiero da Fortezza
 Il 5 Maggio 1945, a guerra ormai conclusa, 20 militi del battaglione, che aveva valorosamente combattuto a difesa dei confini orientali, si consegnarono ai partigiani, fidando nelle leggi internazionali che tutelano i prigionieri di guerra. Ma i partigiani, totalmente irrispettosi di ogni legge, li condussero, dopo molte marce, a Sella Doll di Montesanto e qui, fattili inginocchiare sul bordo di una trincea della prima guerra mondiale, barbaramente li uccisero con un colpo alla nuca.

La strage di Codevigo (Padova)
 Qui nei primi giorni del Maggio 1945 (fra il 3 e il 13) furono seviziate e uccise oltre 365 persone fra cui 17 fascisti (uomini e donne) dello stesso Codevigo (12 maggio). I militari, appartenenti a formazioni R.S.I. della provincia di Ravenna, erano stati catturati negli ultimi giorni di aprile e chiusi in carcere. Ma i partigiani romagnoli di Arrigo Boldrini li prelevarono dicendo che li avrebbero condotti a Ravenna. Li condussero, invece, a Codevigo e qui, dopo averli seviziati, li condussero al ponte sul fiume Brenta e  li uccisero a due a due,  gettandoli poi nel fiume. Molte salme furono trascinate via dalla corrente. Altre, gettate nei cimiteri dei dintorni, furono recuperate per l’opera instancabile di Rosa Melai che, il 27 maggio 1962 riuscì a inaugurare l’Ossario dove potè radunare le salme ritrovate. Oggi sono 114 i caduti che qui hanno trovato riposo e rispetto.
I trucidati a Ponte di Greggio (VC)
 I fatti avvennero nei primi giorni del Maggio 1945. Un numero imprecisato di fascisti della Repubblica Sociale Italiana vennero trucidati e i loro corpi gettati dal ponte nelle acque del canale Cavour. (Vedi la voce “Ospedale psichiatrico di Vercelli”)

I massacri dei bersaglieri del “Mussolini”
Come è noto il Btg di bersaglieri volontari “Mussolini” fronteggiò gli slavi del X° Corpus sul fronte orientale fin dal 10/12 ottobre 1943. Il 30 Aprile 1945, dopo la morte di Mussolini e la resa delle truppe italo-tedesche, anche gli uomini del “Mussolini” decisero di arrendersi ai partigiani di Tito, alle condizioni stabilite che prevedevano l’immediato rilascio dei soldati e la trattenuta dei soli ufficiali per accertare eventuali responsabilità. Ma i “titini” si guardarono bene dal rispettare le condizioni concordate e, invece di lasciare liberi i soldati, condussero tutti a Tolmino e li rinchiusero in una caserma. Da qui qualcuno fortunatamente riuscì a fuggire, ma, dopo alcuni giorni, 12 ufficiali e novanta volontari furono prelevati, condotti sul greto dell’Isonzo e, qui, trucidati. Dopo altri giorni altri dodici furono prelevati, condotti a Fiume e uccisi. E ancora il 18 maggio dall’Ospedale Militare di Gorizia furono prelevati 50 degenti e uccisi. Dieci erano bersaglieri. Intanto i sopravvissuti avevano iniziato una marcia allucinante, senza cibo né acqua, picchiati e seviziati, e altri furono uccisi durante la marcia. Finalmente giunsero al tristemente famoso campo di prigionia di Borovnica ove fame, epidemie, sevizie e torture inumane seminano morte fra gli odiatissimi bersaglieri. Alla chiusura di quel campo, nel 1946, i sopravvissuti furono internati in altri campi ove le condizioni non migliorarono assolutamente. Alla fine, il 26 giugno 1947, soltanto 150 bersaglieri, ridotti in condizioni inumane, poterono tornare in Italia. Dei quasi quattrocento caduti del battaglione, ben 220 furono quelli uccisi dopo il 30 aprile 1945.

La strage delle ausiliarie
Negli ultimi giorni dell’ Aprile e nei primi di Maggio 1945 l’odio bestiale dei partigiani si scatenò con particolare accanimento contro le donne che avevano prestato servizio in qualità di ausiliarie nell’esercito della R.S.I. Esse subirono torture, pestaggi, sovente stupri ripetuti, e si tentò di umiliarle in ogni modo, spesso denudandole ed esponendole così al ludibrio di folle imbestialite.
 Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” (cui si rinvia per approfondimenti) ricorda diecine di casi di ausiliarie, spesso giovanissime, catturate da sole o in piccoli gruppi e, poi, martirizzate e trucidate. L’elenco delle ausiliarie cadute che compare in detta opera è di 200 nominativi, ma si avverte che tale elenco non è completo proprio perché non è mai stato possibile fare luce completa sulla quantità di crimini commessi dai partigiani in quella primavera di sangue a danno di queste giovani donne coraggiose e fedeli fino alla fine. Nella sola Torino ne furono massacrate 18.

L’olocausto della “Monterosa”
Tra il 24 e il 25 Aprile tutte le truppe schierate sul fronte alpino occidentale ricevettero l’ordine di ripiegare sul fondovalle. Così anche gli uomini della Divisione Alpina “Monterosa” iniziarono il ripiegamento. E, a cominciare dal 26 aprile, molti reparti, ad evitare spargimenti di sangue ormai inutili, si arresero al C.L.N. della zona avendo formali promesse di trattamento conforme alle leggi internazionali. Purtroppo tali leggi non furono rispettate e anche qui, come altrove, decine e decine di uomini ormai disarmati, furono trucidati con bestiale ferocia. Non è possibile ricostruire tutti i fatti, molti dei quali, probabilmente, non sono mai stati resi noti. E’ molto noto, invece, il caso degli uomini del Btg “Bassano” che si erano arresi il 26 aprile al C.L.N. di Saluzzo. Come al solito essi avevano avuto ampie garanzie di salvaguardia della loro incolumità. Ma, ancora come il solito, tali promesse non erano state rispettate. E l’Avv. Andrea Mitolo di Bolzano, già ufficiale del “Bassano”, con una circostanziata denuncia alla Procura della Repubblica di Saluzzo, descrive la fine di ventidue uomini, ufficiali e soldati, trucidati dai partigiani di “Gianaldo” (Italo Berardengo) dopo che si erano arresi ed erano stati disarmati.
 Né, parlando della Monterosa, possiamo non ricordare l’infame attentato alla tradotta che trasportava sul fronte occidentale gli uomini della “Monterosa” che erano stati ritirati dal fronte della Garfagnana. Tra Villafranca e Villanova d’Asti fu minata la linea ferroviaria e l’esplosione, provocata al passaggio della tradotta, travolse due vagoni e uccise 27 alpini ferendone altri 21 anche in modo molto grave. Malgrado l’odiosità del vile attentato non fu attuata alcuna rappresaglia.

I trucidati della Divisione “Littorio”
Negli ultimi giorni di Aprile anche i reparti della “Littorio” che, come è noto, difendevano i confini occidentali, iniziarono il ripiegamento verso il fondo valle. Anche qui, come altrove, i reparti che rimasero in armi fino all’arrivo degli anglo-americani, si consegnarono a questi e furono avviati ai campi di concentramento.
 Quelli, invece, come il III Btg del 3° Rgt granatieri, si consegnarono ai partigiani, ebbero sorte diversa. Era stato raggiunto un accordo coi partigiani del capitano Aldo Quaranta per un indisturbato deflusso di tuti i reparti e il III Btg, giunto il 27 aprile a Borgo San Dalmazzo, si arrese al capo del CLN del luogo, tale Oratino. L’accordo era che i militari sarebbero stati messi gradualmente in libertà forniti di lasciapassare. Fra gli uomini del Btg e i partigiani non c’erano mai stati scontri o altri incidenti, per cui il patto fu accettato dagli uomini della “Littorio” fidando nella parola dell’Oratino. Ma anche questa volta gli uomini del CLN e i partigiani non tennero fede alla parola data e il Maggiore Grisi, comandante del III Btg, il maggiore Montecchi, il Ten. Buccianti, il Cap. Calabrò, i Marescialli Sanvitale e Magni, il Caporal Maggiore Sciaratta ed altri furono uccisi alcuni dopo un processo sommario, altri senza processo e, soprattutto, senza che fossero loro contestate reali colpe.


I morti della Divisione “San Marco”
Negli ultimi giorni di Aprile, a guerra conclusa, molti uomini della Divisione “San Marco” furono uccisi dai partigiani. Giorgio Pisanò, nella sua “Storia delle Forze Armate della R.S.I.” ne elenca alcune centinaia fra cui circa 300 ignoti ancora in divisa ma privi di ogni segno di riconoscimento, trucidati a Colle di Cadibona, Monte Manfrei (vedi), Passo del Cavallo, Santa Eufemia e in altri luoghi.
 Il Deposito Divisionale, ritiratosi a Lumezzane V.T., qui il 27 aprile accettò la resa con l’onore delle armi e un promesso salvacondotto per tutti. Ma una volta deposte le armi i partigiani, fedifraghi come sempre, condussero gli ufficiali a Gardone e, dopo due giorni, li trucidarono a S.Eufemia della Fonte (BS). Fra di essi il Comandante del Deposito Ten. Col. Zingarelli, la cui salma, ritrovata con le altre orrendamente mutilate, potè essere identificata in virtù di un maglione blu che era solito indossare.


I trucidati della 29° Divisione SS italiane
I reparti più atti al combattimento di questa divisione ( Btg “Debica” e Gruppo di combattimento “Binz”) si arresero agli americani nei giorni 29 e 30 aprile. Il resto della divisione, invece, ( Btg Pionieri e Btg dislocati a Mariano Comense e a Cantù) dopo una strenua resistenza condotta fino all’esaurimento delle munizioni, fu catturato dai partigiani. Gli ufficiali furono tutti trucidati. Il Ten. Luigi Ippoliti, ferito, fu prelevato in ospedale il 5 maggio 1945, condotto presso il cimitero di Meda e qui massacrato legato alla barella.


I caduti del 3° Rgt Bersaglieri volontari
 Il I Btg era schierato a Genova e a levante di Genova. I reparti che erano a levante di Genova si sacrificarono quasi interamente per contrastare l’avanzata del negri della 92^ Div. “Buffalo”. I reparti che si trovavano in città furono attaccati dai partigiani e si difesero fino all’ultima cartuccia. Essendo ormai disarmati, furono catturati e, immediatamente, quasi tutti uccisi. Il II Btg si trovava, invece, in Liguria in difesa del confine occidentale. Quando giunse l’ordine di ripiegamento, risalì insieme alla 34^ Div. Tedesca fino a Quagliuzzo in Piemonte e qui, il 3 maggio, si arrese al CNL locale previo rilascio di un lasciapassare per tutti gli uomini. Malgrado il lasciapassare, però, il Cap. Francoletti e il Ten. Casolini furono condotti sul greto della Dora e qui massacrati. I corpi non furono mai ritrovati. Questo Btg ebbe anche due giovani mascotte, di quattordici e 12 anni, assassinate dai partigiani.


I caduti dei Guastatori del Genio II Btg
Anche questo reparto (che aveva poi assunto il nome di II Btg Pionieri “Nettuno”) ebbe i suoi caduti dopo la cessazione delle ostilità. Nei giorni successivi al 25 aprile 1945 il Btg fu sciolto a Somma Lombardo (Varese). La popolazione del luogo si adoperò in ogni modo per salvare gli uomini del Btg, favorendo il rientro nelle loro famiglie. Malgrado il generoso intervento, i partigiani catturarono il Capitano Dino Borsani e, dopo due settimane di torture, lo trucidarono insieme a tre militari sulle rive del Ticino. Era il 10 maggio 1945.

Gli uccisi del Btg Volontari Mutilati “Onore e Sacrificio”
Anche questo Battaglione che la Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra aveva voluto costituire (come già accadde durante la campagna etiopica del 1936) ebbe trucidati molti dei suoi appartenenti. Il Btg era stato costituito a Milano e qui era sempre rimasto, a svolgere compiti territoriali. Dopo la resa anche su questi mutilati infierì la ferocia partigiana e, allorché ebbero deposto le armi, molti furono gli assassinati


L’eccidio di Ozegna
Pur non essendo accaduto dopo il termine della guerra, si ritiene opportuno narrare qui anche questo fatto, per la vigliaccheria con cui venne consumato l’agguato. L’8 di luglio del 1944 un reparto motorizzato del Btg “Barbarigo” della X^ MAS, che dalla metà di giugno si trovava in Piemonte, al ritorno da una missione fece sosta nella piazza di Ozegna. Lo comandava il Capitano di Corvetta Umberto Bardelli, comandante del Battaglione. Sulla stessa piazza si trovavano alcuni partigiani coi quali Bardelli avviò una pacata discussione invitandoli a non combattere contro altri italiani per conto dello straniero invasore. La conversazione fu pacata e i partigiani ammisero che occorreva fare fronte comune contro gli stranieri. Ma l’atteggiamento remissivo e non ostile nascondeva l’agguato. Infatti, mentre essi parlavano in quel modo con Bardelli, un centinaio di partigiani si ammassarono nelle vie che sboccavano nella piazza e, non appena i parlamentari partigiani si allontanarono, un inferno di fuoco si scatenò sugli uomini del “Barbarigo”. Bardelli tentò di organizzare la resistenza, gridando: - Barbarigo non si arrende - , ma cadde quasi subito sotto il fuoco delle armi partigiane della banda di Piero Urati (detto Piero Pieri) insieme a dodici marò. I sopravvissuti, molti dei quali erano feriti, dovettero arrendersi.

Il massacro del Distaccamento “Torino” della X^
Il 26 aprile 1945 le forze del Presidio militare di Torino lasciarono la città agli ordini del comandante regionale militare Gen. Adami-Rossi. Ma il distaccamento “Torino” della Decima Flottiglia MAS non le seguì e si chiuse nella caserma Montegrappa preparandosi ad una resistenza ad oltranza. Disponeva anche di qualche carro armato. La resistenza durò tre giorni ma alla fine, esaurito il carburante per i carri e scarseggiando le munizioni, il 30 aprile cessò. Qualcuno riuscì a mettersi in salvo attraverso certi cunicoli sotterranei, ma sui rimasti si abbattè la ferocia partigiana. Circa 70 uomini furono fucilati nel cortile della caserma, altri furono massacrati dalle varie formazioni partigiane che avevano partecipato all’assalto e alla cattura di prigionieri. Alla fine, dopo che avevano dovuto assistere al martirio dei camerati, vennero fucilate anche tutte le ausiliarie del reparto.

Il sacrificio della Compagnia “Adriatica” della X^ MAS
All’atto dell’abbandono di Ravenna il Ten. Di Vasc. Giannelli costituì, coi marinai presenti, una compagnia di fucilieri. Era il 1° dicembre 1944. Spostatasi a Chioggia,  la compagnia si aggregò alla X^ e, nel gennaio 1945, partì per Fiume e, da qui, si portò sull’isola di Cherso. Qui, nel maggio 1945, la compagnia si sacrificò pressoché per intero per la difesa dell’isola.

Il sacrificio della Compagnia “D’Annunzio” della X^ MAS
Costituitasi a Fiume nel maggio 1944, fu l’estremo avamposto della Decima sui confini orientali. Posta alla difesa di Fiume, costituì anche tre distaccamenti: Laurana, Lussimpiccolo e Lussingrande. Il 25 aprile 1945  Laurana venne attaccata dai “titini” e i 130 marinai si difesero strenuamente fino all’arrivo dei soccorsi. Ma ben 90 caddero nello scontro. Gli altri due distaccamenti si difesero eroicamente fino alla totale distruzione. Fiume si difese con uguale valore fino al 1° maggio, nella vana attesa di uno sbarco anglo-americano. E il 2 maggio i superstiti furono catturati dagli iugoslavi. Ben pochi rientrarono dalla prigionia nel 1947.

Il sacrificio della Compagnia “Sauro” della X^ MAS
Costituita a Pola nel settembre 1943 con gli uomini del deposito del Reggimento San Marco rimasti, dopo la visita di Borghese passò alle dipendenze della X^. A fine aprile e fino al 3 maggio combattè strenuamente fino all’ultimo per la difesa della città. Pochi sopravvissero e furono catturati dagli slavi.

I trucidati della base operativa “Est” della X^
La Base “Est” aveva sede a Brioni Maggiore ma, a fine aprile, col precipitare degli eventi, si concentrò presso il Comando di Marina-Pola. Dopo aver partecipato alla difesa della città, quando essa cadde il personale fu catturato dagli slavi. Solo quattro marinai furono risparmiati. Ufficiali, sottufficiali e 50 fra gradutai e marinai furono trucidati a Portorose, a Brioni e a Pola.

Il sacrificio della Scuola Sommozzatori della X^
Questa scuola, costituita a Portofino nel gennaio 1944, nell’estate fu trasferita in Istria, sul confine orientale, a Portorose. Una parte del personale, catturata negli ultimi giorni di aprile, fu subito passata per le armi. Altri, caduti prigionieri a Pola ove si erano concentrati, finirono nei terribili campi di concentramento iugoslavi. Pochi i sopravvissuti.

I morti del Btg. “Sagittario” della X^
Il 30 aprile 1945 il Btg., insieme ad altri reparti del II° Gruppo di Combattimento, raggiunse Marostica e qui, secondo gli ordini, si dette in prigionia agli americani. Ma, dopo la resa, il Comandante Ten.Vasc.F.M. Ugo Franchi e numerosi marinai, furono prelevati e assassinati dai partigiani.

L’assassinio del Maggiore Adriano Visconti
Il 29 aprile 1945 a Gallarate il Primo Gruppo Caccia dell’Aeronautica Repubblicana si arrendeva al CLN del luogo previo accordo che garantiva a tutti l’incolumità. Gli ufficiali vennero condotti a Milano nella Caserma del “Savoia Cavalleria” in Via Vincenzo Monti. Qui, contrariamente agli accordi, gli ufficiali, cui era stato concesso di tenere le proprie armi, vennero disarmati. E mentre attraversavano il cortile della caserma, il Maggiore Adriano Visconti, comandante del Gruppo e il S.Ten. Valerio Stefanini, Aiutante Maggiore, vennero vilmente  assassinati con raffiche di mitragliatore sparati alle spalle. Furono sepolti nel cortile stesso della caserma.

I massacrati del Btg. “Folgore”
Il 29 aprile 1945 il Btg. “Folgore” del Rgt “Folgore” si stava dirigendo verso Venaria Reale. Contemporaneamente una pattuglia su un autocarro si diresse a Torino per ritirare alcuni autocarri presso il deposito reggimentale e per recuperare i feriti del Btg presso l’O.M. Ma a Porta Susa un blocco partigiano impedì la realizzazione del progetto. Allora il sottufficiale capo-pattuglia parlamentò coi partigiani ed ebbe l’assicurazione che i feriti sarebbero stati rispettati. Purtroppo, invece, tutti i feriti furono massacrati. Il 1° maggio il Btg., giunto a Strambino il giorno prima, si sciolse, e il Capitano Fredda sciolse gli uomini da ogni obbligo. Ma quasi nessuno abbandonò il reparto che il 5 maggio, ad Ivrea, si consegnò in prigionia di guerra agli americani ricevendo l’onore delle armi. L’ausiliaria Portesan e il sergente maggiore Ciardella furono i soli a lasciare il Btg il 2 maggio, ma, appena fuori dalla zona presidiata, furono trucidati dai partigiani.

Le stragi di Genova
 Fra il 26 e il 27 aprile 1945 cessava la resistenza dei presidi della GNR rimasti in città. Con l’assunzione del potere da parte del CLN iniziarono i massacri che coinvolsero anche gran parte dei familiari dei militi. Massacri che continuarono anche dopo l’arrivo a Genova della 92^ Div. “Buffalo” americana.

Le stragi di Imperia
I partigiani entrarono in Imperia il 25 aprile 1945. Fu subito costituita una “commissione di giustizia” che arrestò 500 fascisti o presunti tali. Si disse che era per  salvaguardarne la vita. Ma il 4 maggio una quarantina di loro fu seviziata e uccisa. E anche nella provincia avvennero massacri spaventosi.
 

 

Le stragi di Milano

Il 608° Comando Provinciale GNR, fedele alle consegne, non si sbandò il 25 aprile 1945 e, chiusisi i vari distaccamenti nelle caserme, resistè fino all’ultima cartuccia. Dopo di che, malgrado le promesse di rispetto della vita, ci furono i massacri, compiuti prevalentemente dai partigiani dell’Oltrepo pavese. Interi plotoni vennero passati per le armi. E le uccisioni continuarono anche quando i pochi superstiti ritornarono alle loro case dai campi di concentramento.


Le stragi di Varese
Anche qui le forze del 609° Com. Prov. GNR rimaste sul posto, dopo essere state sopraffatte il 26 aprile 1945, subirono le atroci vendette dei partigiani che, dopo aver subito fucilato il Cap. Osvaldo Pieroni con alcuni altri, continuarono fino a tutto maggio le esecuzioni sommarie, abbandonando insepolti i cadaveri, spesso rimasti senza nome.


Le stragi di Como
Nella notte del 27 aprile 1945 il Colonnello Vanini aveva ordinato la resa e lo scioglimento del 610° Com. Prov. GNR. Ciò fu fatto, come dagli altri reparti della R.S.I., per evitare il bombardamento della città che sarebbe stato richiesto dai partigiani. Subito dopo cominciarono, anche qui, le sevizie e le uccisioni di numerosissimi militari, che continuarono per quasi tutto maggio.

Le stragi di Sondrio
Il 25 aprile 1945 a Sondrio comandava i circa 3000 uomini della R.S.I. il generale Onorio Onori che avrebbe dovuto organizzare il famoso ridotto della Valtellina. Altri 1000 uomini al comando del Maggiore Renato Vanna sono a Tirano e cercano di raggiungere Sondrio. Il Maggiore Vanna, con 300 uomini, tenta di forzare gli sbarramenti opposti dai partigiani, ma ecco che il generale Onori e Rodolfo Parmeggiani, federale di Sondrio, gli vanno incontro a Ponte in Valtellina, a 9 Km da Sondrio, gli comunicano di essersi arresi il giorno prima e lo invitano a fare altrettanto. E’ il 29 aprile. Tutti i prigionieri vengono chiusi nel carcere di via Caimi o nell’ex casa del Fascio. E qui, malgrado le solite  promesse di trattamento civile e conforme alle convenzioni internazionali, ai primi di maggio ebbero inizio le uccisioni di massa. Il 4 maggio furono prelevati 8 uomini, condotti ad Ardenno, obbligati a scavarsi la fossa e uccisi. Il 6 maggio ne furono prelevati 13, condotti a Buglio in Monte e uccisi. Il 7 maggio fu la volta di altri 15. Condotti vicino a Bagni del Masino, furono mitragliati alle gambe e, poi, bruciati vivi. Si calcola che, in totale, gli uccisi siano stati oltre 200. Secondo alcuni addirittura 500. Fra gli uccisi anche l’ausiliaria Angela Maria Tam, il maggiore Vanna e due Capitani medici. Il S.Ten. Paganella fu gettato da un campanile. Molti uccisi ebbe anche il I Btg Milizia Francese, dipendente dallo stesso Comando. 

Le stragi di Brescia
Gli uomini del 613° Com. Prov. GNR si arresero fra il 28 e il 30 aprile 1945. Subito ci furono sevizie e uccisioni compiute dai partigiani. Il maggiore Spadini subì un vergognoso processo e fu condannato a morte e fucilato il 13.2.1946. Il 23.4.1960 la vedova ricevette una telefonata del Ministro di Grazia e Giustizia On. Guido Gonella che gli annunciava l’annullamento della sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Brescia e la riabilitazione del marito.

Le stragi di Pavia
Le forze del 616° Com. Prov. GNR furono particolarmente pressate dalle ingenti bande partigiane della zona. Il 25 aprile 1945 il presidio di Strabella visse un episodio eroico. Per consentire al grosso delle truppe di ritirarsi verso nord, dodici giovanissimi volontari si assunsero il compito di impegnare le forze partigiane. I dodici giovani, poi ridotti a sei, si difesero disperatamente per tutto il giorno e tutta la notte. Poi accettarono la resa con l’onore delle armi. Ma poco dopo, furiosi per essere stati tenuti in scacco da sei ragazzi, i partigiani li prelevarono (ad eccezione di uno che riuscì a fuggire) e li fucilarono insieme ad altre 14 persone. La stessa sorte fu riservata a molti militi dehli altri presidi.

Le stragi di Vicenza
Gli uomini del 619° Com.Prov. GNR, all’atto dello sfondamento del fronte nell’aprile 1945 si ritirarono verso le montagne. Ma qui dovettero arrendersi ai partigiani. Vari distaccamenti, però, si difesero strenuamente finchè vennero sopraffatti e massacrati con inaudita ferocia. Vedi anche il terribile massacro di Schio.
Le stragi di Treviso
Anche in questa provincia gli uomini del 620° Com. Prov. GNR, dopo la resa avvenuta fra il 27 e il 30 aprile 1945, subirono la feroce vendetta partigiana. A Revine Lago, a Oderzo, a Susegana furono soppressi centinaia di uomini. Quelli del presidio di Fregona, arresisi il 27 aprile, furono portati a Piano del Cansiglio e infoibati.

Le stragi di Padova
Il 623° Com. Prov. GNR cessò di esistere il 28 aprile 1945. In tutta la provincia infierirono gli uomini della brigata garibaldina di “Bulow” (Boldrini) che commisero innumerevoli eccidi.
Le stragi di Bologna
Il629° Com. Prov. GNR partecipò, il 21aprile 1945, alla difesa di Bologna, poi si ritirò verso il Po e qui si sciolse. I suoi uomini furono braccati e moltissimi furono gli assassinati e lasciati senza sepoltura.Pare che gli uccisi dopo il 21 aprile 1945 nel bolognese ammontino a 773 di cui 334 civili fra cui 42 donne.

Le stragi di Parma
Il 631° Com. Prov: GNR partecipò alla difesa della città il 23 aprile 1945, poi una colonna si ritirò fino a Casalpusterlengo ove si sciolse. Ma i presidi di Colorno e di Salsomaggiore furono massacrati al completo. E il 26 aprile a Parma in via Giuseppe Rondinoni furono uccisi 10 bersaglieri della divisione “Italia”.

Le stragi di Modena
Il 633° Com.Prov.GNR nell’aprile 1945 si ritirò ordinatamente fino quasi a Como dove si sciolse. Ma nella provincia di Modena le uccisioni indiscriminate di fascisti continuarono fino al 1946. I fascisti uccisi nel modenese pare ammontino a 893. Per notizie particolareggiate vedi anche il sito
http://members.xoom.it/fratricidio .


Le stragi di Forlì
Gli uomini del 636° Com. Prov. GNR ripiegati al nord, confluirono nel Btg. “Romagna” che fu inviato nel Veneto. Qui, negli ultimi giorni di aprile 1945 avvenne la resa e, dopo la resa, il pressoché totale annientamento ad opera dei partigiani.

Le stragi del 3° Rgt M.D.T. “D’Annunzio”
Il 3° Reggimento “Gabriele D’Annunzio”, che era di stanza a Fiume, negli ultimi giorni di aprile 1945 tentò il ripiegamento verso Trieste e Gorizia. I suoi uomini, costretti ad arrendersi agli slavi il 3 maggio subirono orrende sevizie, numerose uccisioni, e anche infoibamenti.

Gli uccisi del Btg “Montebello”
Una parte del Comando e la 4^ Cmp di questo Btg il 23 aprile 1945 erano rimasti a Cossato. Qui dovettero arrendersi ai partigiani che garantirono l’onore delle armi e la vita salva agli uomini. Ma, come al solito, appena deposte le armi, iniziarono le sevizie e le uccisioni. Il giorno 30 aprile a Sordevolo un primo gruppo di uomini, compreso il Cappellano militare Cap. Don Leandro Sangiorgi, furono uccisi. Un altro gruppo fu ucciso il 1° maggio a Coggiola. Altri, condotti nel famigerato campo sportivo di Novara, finirono poi massacrati nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli.

Il sacrificio del Btg “9 settembre”
Arresosi il 27 aprile 1945, ebbe garanzie di rispetto della vita degli uomini. Invece dal 1° maggio bande partigiane prelevavano gruppi di prigionieri e, condottili in montagna ove li tenevano anche tre giorni senza cibo, li seviziavano e li uccidevano. Si erano arresi in 190. Ne sopravvissero una diecina.

Il tributo di sangue delle Brigate Nere
La XI Brigata Nera “Cesare Rodini” di Como si arrese il 28 aprile 1945 e gli squadristi furono avviati a Coltano. Ma al presidio di Cremia, della Cmp “Menaggio”, toccò una sorte tragica. Il 25 aprile un giovanissimo squadrista, Gianni Tomaini classe 1930, portò anche a questo presidio l’ordine di rientrare a Menaggio. Ma il comandante del presidio stava già trattando la resa coi partigiani, che promettevano salva la vita. Ma appena consegnate le armi tutti gli squadristi furono portati a Dongo, sottoposti ad inaudite sevizie e trucidati tutti, compreso il giovane Tomaini.
 E questo non fu l’unico episodio di piccoli presidi delle B.N. massacrati in quel modo.
Le B.N., infatti, pagarono un alto tributo di sangue in quelle tragiche giornate.

La strage della cartiera Burgo di Mignagola
I partigiani, dopo la resa dei combattenti della RSI, organizzarono veri e propri campi di sterminio, dove in brevissimo tempo procedevano, dopo nefande sevizie, a barbare uccisioni, che eufemisticamente chiamavano “epurazioni”. Cito la cartiera  “Burgo” di  Mignagola, frazione di Carbonera (TV), nei pressi di Breda di Piave. In questa cartiera furono sterminate 400 o forse anche 1000 persone.(1)
 Si ha notizia di atroci sevizie inflitte ai prigionieri prima dell’uccisione: lamette ficcate in gola, distintivi fatti ingoiare, spilloni piantati nei genitali, camminare a piedi nudi su cocci di bottiglia, bocca riempita di carta che poi veniva incendiata….
 Tra i trucidati il giovane ufficiale  Gino Lorenzi, crocifisso; era un sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U.
 Lo inchiodarono con grossi chiodi ai polsi e alle caviglie su di una rozza croce  costituita da due tronchi d’albero e fu lasciato morire lentamente  fra tormenti atroci, finché le volpi lo finirono.(2)
Ma non fu l’unica crocifissione; si ha notizia anche della  barbara e feroce tortura inflitta ancora ad un giovane sottotenente della GNR appena uscito dalla scuola A.U. : Walter Tavani crocifisso a un portone a Cavazze (MO). E ancora  altri Martiri crocifissi ai portoni delle stalle scelti tra gli oltre settanta assassinati nell’Argentano dopo sevizie atroci: aver avuto mozzate le mani, strappati gli occhi,  inchiodata la lingua, strappate le unghie,amputati i genitali.(3)
NOTE: [1]  Paolo Teoni  Minucci ,Combattenti dell’Onore – Così caddero gli uomini e le donne della RSI ,Greco & Greco, Milano, 2001, p.233.
2  F. Enrico Accolla, Lotta su 3 fronti- Introduzione alla storia della Repubblica Sociale Italiana, Greco & Greco  Editori, Milano, 1992, p. 222.
3  Vincenzo Caputo, Disobbedisco-De bello milliariniense, TLA Editrice, Ferrara, 2001,p.11
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)
 

 

Eccidio del carcere giudiziario

 

 

giudiziario di Ferrara
L’otto giugno 1945 una squadra di partigiani, che esibivano sul taschino del giubbotto un grosso distintivo con la falce e martello, si fecero aprire con uno stratagemma, la porta del carcere “Piangipane” , di Ferrara, tre di essi, armati di mitra, dopo aver fatto evadere i partigiani detenuti per reati comuni, penetrarono nell’ala dove erano rinchiusi i detenuti politici, e, fattesi aprire le celle dal capo guardia, ingiunsero ai reclusi di ammassarsi in fondo al corridoio e li massacrarono a ripetute raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo. Non soddisfatti, continuarono a sparare nel mucchio dei corpi ammucchiati per terra in una pozza di sangue, prima di fuggire nel cortile, dove uccisero anche il capo guardia. In totale i morti furono 18 e 17 i feriti.
In successive e tardive indagini furono identificati i tre sicari, ma , giudicati dalla Corte di Appello di Ancona, questa ritenne estinti i reati per amnistia, quasi che l’eccidio fosse stato “commesso nella lotta contro il fascismo”.
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)

Il rogo di Francavilla Fontana (Brindisi)
L’otto maggio 1945 una piccola folla di facinorosi sobillati da comunisti, prelevò i fratelli Chionna dalla loro abitazione, che venne depredata di ogni bene asportabile e quindi devastata,  soltanto perché colpevoli di aver conservato sentimenti fascisti. I due vennero sospinti con  feroci sevizie fino alla piazza principale della cittadina, dove era stata allestita una pira a cui fu dato fuoco. Il linciaggio si concluse con il rogo dei due fascisti gettati tra le fiamme ancora vivi.
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)

Nefandezze nel modenese
A Medolla (MO) il grande invalido di guerra Weiner Marchi, costretto in una carrozzella, il 29 aprile,  venne seviziato vigliaccamente e poi, ferito e sanguinante, fu gettato, ancora vivo, in pasto alle scrofe affamate in un recinto; ma furono più feroci gli uomini delle   bestie  che lo straziarono per cibarsene.
A Modena il 27 aprile Rosalia Bertacchi Paltrinieri, segretaria del Fascio femminile e la fascista Jolanda Pignati furono violentate di fronte ai rispettivi mariti e figli, quindi, trascinate vicino al cimitero, furono sepolte vive.
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)
Per notizie partricolareggiate sulla guerra civile nel modenese vedi anche il sito :
http://members.xoom.it/fratricidio .
 Assassinio della levatrice di Trausella (TO)
A Trausella (TO), la levatrice di quel comune fu prelevata, “con audace azione di guerra”, mentre si recava ad assistere una partoriente, trascinata presso il comando di una “valorosa e intrepida” formazione partigiana, fu violentata da un numero imprecisato di eroici “combattenti per la libertà”, che poi la trucidarono, assassinandola tra tormenti atroci avendole tamponato i genitali con ovatta impregnata di benzina, a cui appiccarono il fuoco, rinnovando l’orrenda combustione con altri tamponi infiammati fino al  purtroppo stentato sopraggiungere della liberazione con la morte.1

NOTE: [1] Mino Caudana e Arturo Assante, Dal Regno del Sud al vento del Nord, Vol. II, C.E.N., Roma, 1963, III ediz., p. 1180.
( Contributo di Francesco Fatica dell’ISSES Napoli)

L’eccidio di Volto di Rosolina (Rovigo)
Nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile 1945 le truppe italo-tedesche abbandonarono la zona di Rosolina. In località Volto operava una batteria antiaerea della X Flottiglia Mas. Il 26 aprile i marò della Decima fanno saltare le munizioni e i cannoni e cercano di mettersi in salvo vestendosi in borghese. Ma nella notte fra il 26 e il 27 vengono raggiunti dai partigiani e uccisi senza pietà con raffiche di mitra. L’allora parroco Don Mario Busetto ha lasciato una testimonianza dalla quale si ricava che in data 30 aprile furono scoperti sotto la sabbia 9 cadaveri, cui fu data cristiana sepoltura. Purtroppo fu identificato soltanto Vincenzo Caruso di anni 21 da San Nicandro Garganico (FG). Secondo il parroco, però, un altro degli uccisi era Leonardi Carmelo di Palermo. Invano la famiglia di Giuseppe Licata, anni 23, di Sciacca (AG) cercò di identificare il suo congiunto con uno dei caduti.
 Il 15 giugno 1946, poi, vennero scoperti e sepolti altri 5 cadaveri.
 Insieme ai 14 marò furono uccise anche due giovani sorelle che prestavano servizio alla batteria in qualità di ausiliarie: Adelasia Zampollo di anni 17, nata a Chioggia e residente a Genova e la sorella Amorina di 24 anni, che aveva un figlio piccolo.
(contributo di Gian Maria Zanini)


Le stragi di Omegna
Nella notte fra il 25 e il 26 gennaio del 1945 una squadra di partigiani penetrò con l’nganno nella casa del Sig. Raffaele Triboli e lo prelevò insieme alla moglie Clorinda Benassai e alla figlia di 21 anni Gianna. La casa fu rapinata di tutto quanto poteva valere qualcosa. Restavano soli in casa nel terrore i figli Francesca di 14 anni, Antonietta di 13 e Raffaele di 9. I tre prelevati furono torturati, le donne violentate e, infine, gettati, pare ancora vivi, nel lago d’Orta, chiusi dentro un telo di paracadute. Né, questo, fu l’unico massacro compiuto dai partigiani nella zona del lago d’Orta.


La strage dei ragazzini di Mario Onesti
Il 25 aprile 1945 un reparto di giovanissimi militi della contraerea della Malpensa, guidato dal sergente Mario Onesti si dirigeva verso Oleggio. Intercettati dai partigiani della brigata di Moscatelli, si difendono come possono. Alla fine il cappellano partigiano, Don Enrico Nobile, invita i militi ad arrendersi. Avranno salva la vita e un salvacondotto per tornarsene a casa. Il sergente interpella i suoi giovanissimi militi, poco più che adolescenti, e decide di accettare. Qualcuno non si fida e riesce a fuggire, ma undici, col loro sergente, si consegnano e, alle 18,30, si redige un verbale dell’accordo. Ma i partigiani non hanno nessuna intenzione di rispettare il patto e il giorno dopo, 26 aprile, i ragazzi vengono trattenuiti prigionieri nelle segrete del castello di di Samarate, dove vengono sottoposti a indicibili torture. E il giorno dopo ancora, 27 aprile, alle 8 di mattina vengono caricati su un camion e portati sul luogo del supplizio. Il prete che avrebbe dovuto essere garante dell’accordo è impotente e può solo impartire una frettolosa benedizione. Poi la fucilazione. Tutti offrono il petto ai fucilatori. Si ode qualche grido di “Viva l’Italia”. Non sazi gli aguzzini infieriscono sui corpi degli uccisi, anche ficcando ombrelli negli occhi dei morti.

La strage della famiglia di Carlo Pallotti
Il 9 gennaio 1945 alcuni partigiani penetrarono in una casa colonica nella campagna modenese dove si era rifugiato il veterinario Carlo Pallotti, fascista, insieme alla famiglia e massacrarono l’intera famiglia : il Pallotti, la moglie Maria Bertoncelli e i giovanissimi figli Luciano e Maria Luisa. Responsabili furono ritenuti i partigiani modenesi Michele Reggianini e Giuseppe Costanzini che, però, non subirono alcuna condanna per questo crimine  in quanto il massacro fu ritenuto, dalla magistratura della nuova Italia democratica, una legittima azione di guerra.



Le condanne a morte richieste dal P.M. Oscar Luigi Scalfaro
(Pare opportuno inserire anche queste morti fra le stragi di quel periodo)
Il Giornale del 9/3/1995, con un articolo  a firma P.Pisanò, informa:
"Sono 8, le condanne a morte di fascisti, chieste e ottenute dal P.M. O.L.Scalfaro, alla Corte assise di Novara, dopo il 25/4/1945.La biografia ufficiale, parla di un solo imputato, per il quale la condanna a morte era inevitabile; ma tale imputato..venne poi graziato...La realtà è un pò diversa.1943: Il futuro presidente della Repubblica entra in magistratura.1°maggio 1945: O.L.Scalfaro assume volontariamente la carica di vicepresidente del tribunale di Novara. 13 giugno 1945: Sostituiti i tribunali del popolo con le CAS (Corte Assise straordinarie), O.L.Scalfaro sostiene la pubblica accusa contro Enrico Vezzalini, soldato valoroso pluridecorato. 15 e 28/6/1945: L'Ufficio del PM ottiene la condanna a morte di Enrico Vezzalini, Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno e Raffaele Infante.Condanne eseguite all'alba del 23 sett.1945 (ndr: al poligono di tiro di Novara). 16 luglio 1945: Il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Giovanni Pompa, 42 anni, della GNR. Sentenza eseguita il 21/10/1945. 12 dic.1945: il PM chiede ed ottiene la condanna a morte di Salvatore Zurlo. Da "Il Corriere di Novara" del 19 dic.1945: "Il PM Scalfaro parla con vigoria ed efficacia che lo fanno ascoltare senza impazienza dal pubblico....Il Pm, dopo la chiarissima requisitoria conclude domandando la pena di morte per lo Zurlo..."Lo Zurlo, nel 1946, in processo d'appello,ebbe la sentenza annullata. Otto condanne a morte ottenute, sette eseguite. O.L.Scalfaro, brillante inquisitore da tribunale del popolo, si è ormai messo in luce per tentare le vie della politica, candidandosi all' Assemblea Costituente e, pur senza abbandonare la magistratura e relative prebende, avviarsi verso la gloria di Roma". Questo articolo è rimasto, all'epoca, senza reazioni di sorta dell'interessato: tutto vero, dunque. Ma giornalisti de “L'Ultima Crociata”, andati a Novara per rivedere le carte di quei processi, non trovarono un bel nulla.
(Contributo di Alfredo Casalgrandi)




 TRATTO DAL SITO:
http://web.tiscali.it/RSI_ANALISI/stragi.htm