giovedì 10 maggio 2012

10 Maggio 1945 – In ricordo dei fratelli Govoni.


La famiglia Govoni viveva a Pieve di Cento, in provincia di Bologna, ai confini con le provincie di Modena e Ferrara, paese immerso nella grande campagna padana. Contadini da generazioni, il Padre, Cesare Govoni, e la madre, Caterina Gamberini, avevano cresciuto, a fatica, otto dei loro figli. Il primogenito, Dino, quarantuno anni, sposato e padre di due figli, artigiano falegname di professione, era iscritto al Partito Fascista Repubblicano.
Marino, trentatre anni, anche lui aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana, mai nessuna accusa era stata portata nei loro confronti per delitti o soprusi commessi. Maria, sposata si era trasferita da tempo in un piccolo paese a pochi chilometri, Argelato. Emo, trentadue anni, viveva con i vecchi genitori e non si interessava di politica, così come Giuseppe, trent’anni, sposato e padre di un bambino di tre mesi.
Augusto, ventisette anni e Primo di ventidue, celibi e contadini. Infine l’ultimogenita, Ida, vent’anni, appena sposata e madre di un bambino, Sergio, di due mesi. Il 10 maggio del 1945, a guerra ufficialmente terminata, ex partigiani comunisti appartenenti alla seconda Brigata Paolo e ad altre formazioni, in nome della resistenza e della liberazione dal nazifascismo, iniziarono la loro vendetta.
La sera stessa alcuni uomini armati di mitra bussarono alla porta di casa Govoni. Sette fratelli furono prelevati per sostenere un breve interrogatorio allo scopo di raccogliere informazioni. Luogo, del carcere e poi del supplizio, fu una casa colonica, adibita a magazzino, intestata regolarmente ad un contadino del luogo, Emilio Grazia, a Voltareno Argelato. Seviziati, massacrati e uccisi a colpi di roncole, vanghe e zappe, e successivamente seppelliti, alcuni dei quali ancora vivi, in una fossa anticarro, non molto distante dalla casa colonica.
La mattina successiva, altre dieci persone furono sequestrate a San Giorgio di Piano e condotte nella stessa prigione dei fratelli Govoni. Tre appartenenti alla famiglia Bonora, Alberto, Cesarino e Ivo, diciannove anni, rispettivamente nonno, padre e nipote. Inoltre Bonvicini Alberto, Caliceti Giovanni, Mattioli Guido, Pancaldi Guido, Testoni Vinicio e Malaguti Giacomo. Tutte persone rispettate in paese per la loro onestà.
L’ultimo, Malaguti Giacomo, ventidue anni, sottotenente di artiglieria dell’esercito dell’Italia del sud, aveva combattuto contro i tedeschi a Cassino, rimanendo ferito, si trovava in licenza presso la famiglia. Aveva però manifestato posizioni contrarie al comunismo. Fu denunciato alla polizia partigiana, interrogato e rilasciato. Gli altri, dopo le torture, furono strangolate con il filo telefonico e gettati in una fossa comune. Negli anni successivi il silenzio assoluto. I genitori dei fratelli Govoni cercarono di risalire alla verità senza ottenere risultati.
Poi lentamente, si mosse la macchina della giustizia. L’indagine della Magistratura stabilì la ferocia degli aguzzini. Nessuna delle vittime morì per colpi di arma da fuoco e quando, molti anni dopo, furono rinvenuti i cadaveri, si accertò che i corpi presentavano fratture multiple e incrinature. Nel febbraio del 1953, la Corte d’Assise di Bologna, condannò quattro militanti all’ergastolo.
Alcuni indiziati riuscirono ad espatriare con l’aiuto dell’organizzazione predisposta dal Partito Comunista Italiano. Altri ancora, pur riconosciuti come responsabili dell’eccidio, grazie al ricorso in Cassazione, in breve tempo furono rimessi in libertà. A Cesare Govoni e Caterina Gamberini lo Stato Italiano, dopo lunghe esitazioni, decise di corrispondere, per la perdita dei figli, una pensione di settemila lire mensili. Mille lire per ogni figlio assassinato.
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