domenica 23 settembre 2012


Roccaro ( Fiamma Tricolore Siracusa) rievoca una pagina di Storia Siciliana dimenticata: I Moti dei “Non si parte” e la Repubblica Indipendente di Comiso

 

Si  commemorano da 50 anni le azioni partigiane  e l’8 Settembre 1943 con tanto di monumenti, lapidi ed onorificenze militari, tuttora conferite, ma nessuno, o quasi, ricorda invece l’ostilità della gente del Sud verso gli  invasori alleati e nessun testo di storia o cerimonia pubblica ricorda che sessanta sette anni fa, una cittadina siciliana si autoproclamò “Repubblica fascista” indipendente dalla Corona d’Italia e di conseguenza svincolata dal governo Badoglio allora insediato in quel di Brindisi. Era Comiso, in provincia di Ragusa, un abitato assai antico che si rifà alla remota Casmene, fondata dai greci nel 643 a.C. sulla direttrice Agrigento Siracusa, in quel quadrilatero dell’Isola, cioè, che diede del filo da torcere sia alle scarse truppe badogliane, sia a quelle ben più consistenti dei così detti “Alleati”, per le sue turbolenze politiche di stampo fascista. Vero: non ci fu qui guerriglia armata, ma solamente  ostilità e propaganda patriottica. Ciò per volontà precisa di Mussolini, che volle escludere il fratricidio della lotta civile e il rischio di rappresaglie anglo-americane. Volontà espressa alla Principessa Maria Pignatelli di Cerchiara, che attraversò i fronti, prima per venire a colloquio col Duce, poi per rientrare a Napoli e comunicare al marito Valerio le direttive ricevute. Furono perciò riannodati clandestinamente i gruppi delle “Guardie ai Labari”, costituiti dal P.N.F. dal 1943 in previsione di sbarchi nemici. Responsabili dei gruppi furono, in Sicilia, Santagati, Russo e d’Alì,  mentre per la Calabria l’avv. Luigi Filosa ed, infine, l’avv. Nando di Nardo per Napoli. L’economia sempre più disastrata; l’inflazione galoppante, con le amlire stampate dal governo militare Alleato; il ritorno  al  potere della  dirigenza prefascista, che era stata spazzata dal fascismo;  il blocco dei salari; ed, infine,la riduzione del pane da 300 a 200 grammi, favorendo il mercato nero, fecero il gioco dell’attività di questi gruppi. Ma, appena fu firmato l’armistizio di Cassibile tra il governo Badoglio e gli Alleati anglo-americani, l’attività clandestina fascista ebbe un notevole impulso: gruppi clandestini fascisti sorsero spontaneamente un po’ dappertutto e mentre al Nord, costituendosi la RSI, migliaia di volontari si presentarono alle armi, nelle terre invase del Mezzogiorno la lotta clandestina fu avviata con lo stesso rabbioso stato d’animo, pur tra mille difficoltà e superando proibitivi ostacoli di comunicazioni, assoluta mancanza di mezzi, persecuzioni e  sfidando bandi dell’invasore che comminavano la pena di morte per i sabotatori e per i detentori di armi. Da più parti si tentò e talvolta si riuscì a prendere contatto con la RSI, passando clandestinamente le linee. Furono scoperti imbarcazioni a motore MAS che stavano effettuando la traversata del Tirreno partendo dalla Sardegna per approdare sulle coste della RSI.

 Ma vediamo, anzitutto, la cornice di questa per molti aspetti incredibile vicenda bellica. Ben pochi sanno, e le rievocazioni storiche solitamente di parte non hanno certo aiutato a diffonderne le cronache e nemmeno il ricordo, che l’insorgenza fascista nel Mezzogiorno d’Italia si manifestò all’indomani del 25 luglio 1943 che defenestrò Benito Mussolini dalla carica di Capo del Governo. Furono dapprima moti spontanei, spesso improvvisati, sempre volontaristici; in seguito, vennero incanalati e organizzati da personaggi che avevano ricoperto cariche di rilievo provinciale nelle strutture del Regime, ma anche da emissari del Partito Fascista Repubblicano di Alessandro Pavolini, giunti direttamente al Sud della Penisola dalla Repubblica Sociale Italiana. La Sicilia in particolare, dove più serpeggiavano velleità separatiste mentre la “mafia di campagna” sgominata dal “Prefetto di ferro” Cesare Mori, rialzava la testa, in ciò aiutata dai “picciotti” italo-americani sbarcati al seguito delle truppe statunitensi. Sulle prime si trattò di una resistenza al limite del velleitarismo con vistose punte di goliardia; e di fatti, coloro che si ribellarono in quei giorni all’arresto del Duce del Fascismo e la conseguente inevitabile implosione della complessa architettura del Regime, risultarono essere, almeno nelle fasi iniziali, studenti di liceo o tutt’al più di università, tutti dunque assai giovani. Cominciarono a diffondere volantini vergati a mano, poi a tracciare scritte sui muri, gli uni e le altre inneggianti al Duce e al Fascismo; infine ci fu una sorta di “salto di qualità”, ma sempre senza neanche un simulacro di organizzazione magari soltanto paramilitare, con alcuni episodi di sabotaggio alle linee elettriche, ai collegamenti telefonici, ai binari ferroviari e perfino agli autocarri militari “Alleati”. Soltanto all’indomani dell’8 di settembre, quando automaticamente fu sciolto il vincolo fra il potere regio e il popolo, l’insorgenza fascista acquistò sostanza e organicità, radicandosi anzitutto sul territorio e dunque sfruttando il malanimo, il risentimento e la collera della gente, contro i Savoia e gli alti Comandi militari. Furono organizzate manifestazioni di piazza per protestare contro la mancanza di viveri e la carenza di trasporti, ma la “svolta” si ebbe con le dimostrazioni contro la chiamata alle armi.  Sul finire del 1944, scoppiava in molte città della Sicilia una rivolta contro la chiamata di leva alle armi delle classi 1922-1923-1924, voluta dal governo di Pietro Badoglio, per combattere contro la Germania e la R.S.I. (la Repubblica Sociale Italiana). La rivolta veniva alimentata da voci diffuse sulla probabilità che i coscritti di leva potessero essere inviati addirittura a combattere in Estremo Oriente per sostenere gli interessi anglo-americani. Sui muri delle città comparvero le scritte: “Non presentatevi”, “Presentarsi significa servire i Savoia”. Ebbero così inizio i cosiddetti Moti dei “Non si parte”. Dopo essere stato assediato dai dimostranti, il prefetto di Palermo, Pampillonia, richiese l´intervento del Regio Esercito, e così il 19 ottobre 1944 si scatenò la repressione dei soldati della Div. Sabaudia, che spararono contro la folla in dimostrazione alla prefettura di Palermo al grido: “Pane, lavoro”; la repressione del Regio Esercito provocò la morte e il ferimento di molte persone.
A pieno diritto la gente negava la fiducia al regno del Sud, rappresentato da una monarchia e da un governo (il governo Badoglio) che il 25 luglio avevano proclamato “la guerra continua”, l’8 settembre con la firma dell’Armistizio di Cassibile (Siracusa) avevano portato l’Italia fuori dall’Asse affianco della Germania, e che il 9 erano fuggiti a Brindisi sotto la protezione degli angloamericani, abbandonando Roma e, soprattutto, lasciando allo sbando e prive di notizie certe le forze armate italiane, le quali apprendono il 13 ottobre di non essere più alleate con la Germania ma, anzi, di combattere contro di essa. Così a Chiaramonte Gulfi iniziarono quelle manifestazioni, esplose poi a Comiso con testarda gagliardia. Si scriveva sui muri e si ripeteva in improvvisati comizi: “Non presentatevi”, “Presentarsi significa servire i Savoia”, “Non vogliamo andare contro i fratelli del Nord”. A Catania, il cui municipio venne dato alle fiamme da una folla inferocita, Noto, Naro, Piana degli Albanesi, Ramacca,  Giarratana, Modica, Scicli, ecc.  Anche le forze di polizia inviate furono disarmate e respinte. Il 6 gennaio 1945 la rivolta di Ragusa si diffuse ai paesi limitrofi: Vittoria, Acate, Santa Croce Camerina, Chiaramonte. Nella zona ragusana furono registrati duri moti di piazza con relativi assalti a uffici pubblici e perfino alle Stazioni dei reali Carabinieri, come accadde in quel di Giarratana, sempre nella provincia di Ragusa. In breve, i disordini di piazza dilagarono anche nell’Agrigentino, con scontri a fuoco tra le truppe dell’Esercito regio e i dimostranti che non erano peraltro soltanto fascisti, anche se questi ultimi prendevano spesso l’iniziativa e il comando delle manifestazioni di protesta; si contarono numerosi i morti ed i feriti, tutti fra i civili. Ormai era emergenza e da Siracusa come da Gela mossero reparti di fanteria in assetto di guerra che impegnarono gli insorti nelle varie località della provincia, riuscendo dopo aspri combattimenti a riprendere il controllo della situazione. Dovunque, fuorché a Comiso. Rinserrata nelle sue mura medievali, la cittadina respinse i militari e le profferte di tregua dai loro ufficiali avanzatele. Ripresa Ragusa dai governativi “Badogliani” dopo dura battaglia, Comiso divenne il centro di questi scenari insurrezionali, tanto che il 6 gennaio 1945 i fascisti, guidati dall’Ing. Carrara, dichiararono la repubblica indipendente dal governo regio con ordinamenti di chiara ispirazione fascista. Fu proclamata la Repubblica di Comiso retta da un governo popolare, con tanto di comitato di salute pubblica, squadre per l’ordine interno e distribuzioni di viveri a prezzi di consorzio, impossibilità di lasciare la città, pena di morte per i ladri. Comiso visse così per una settimana la sua indipendenza; il 6 gennaio furono respinti 10 autocarri militari e una littorina da Palermo con 70 carabinieri. Respinta altra littorina l’8 gennaio. Occupato l’aeroporto. Da Roma Bonomi telegrafò ad Aldisio: “Azione per stroncare definitivamente sedizione deve essere condotta a fondo e senza alcuna incertezza”. L’11 gennaio il Gen. Brisotto circondò la città. I bombardieri inglesi sono pronti a Licata per bombardare. “Se Comiso non si arrenderà, sarà distrutta”. Intervenne allora la popolazione e, tramite il clero, si arrivò alla resa. Queste le condizioni: deporre le armi, nessuna rappresaglia. Fu illusione: arrivò ugualmente, puntuale, la vendetta badogliana: quasi trecento insorti, la maggioranza dei quali fascisti riconosciuti e schedati, furono incatenati e trasferiti nell’isola di Ustica, dov’era stato approntato un altro campo di concentramento. Erano coloro i quali avevano dotato la “Repubblica autonoma fascista di Comiso” di ordinamenti, norme, decreti e regolamenti ispirati alla legislazione della Repubblica Sociale Italiana. Era l’11 gennaio del 1945. Dietro i reticolati del campo di prigionia savoiardo, i trecento insorti rimasero fino all’anno successivo quando, sul finire del conflitto mondiale, venne decretata l’amnistia (nel 1946 con la proclamazione della Repubblica italiana). Ma prima dei provvedimenti di clemenza che chiusero la pagina dell’ insorgenza fascista nel Mezzogiorno d’Italia, ci fu un ulteriore “giro di vite” contro i fedeli mussoliniani che, spesso a rischio della vita e sempre sfidando pericoli e persecuzioni, mantennero alta la bandiera della fedeltà. Benito Mussolini, presidente, de facto, della Repubblica Sociale Italiana, conferì la medaglia d´argento alla Repubblica Indipendente di Comiso. Mussolini non voleva spargimenti di sangue italiano perciò a Valerio Pignatelli furono date chiarissime istruzioni di “non spargere sangue fraterno sul sacro suolo della Patria”.  Mussolini volle sempre evitare spargimento di sangue fraterno e bloccò sul nascere lo scoppio della guerra civile nel Sud. Peccato che nessun testo di storia o cerimonia pubblica ricordi questi episodi di eroismo, di fedeltà alla patria e di morte. Anche questa è storia, sia pure locale, ma inserita in un contesto storico – politico generale.
Prof. Pietro Roccaro
Responsabile  Provinciale   
Dipartimento  Scuola e Cultura
Federazione  Provinciale  Siracusa
MSI – Fiamma Tricolore

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