lunedì 21 novembre 2011

sabato, 18 giugno 2011

Se lo Stato sociale affonda le radici nel Ventenni
 


di Andrea Indini


 punto%20interrogativo

 

 

Sanità pubblica, enti previdenziali, tutela del lavoro e Stato sociale hanno, nel nostro Paese, un'origine comune che troppo spesso viene volutamente dimenticata. Un'origine che non è di sinistra ma che affonda proprio nel Ventennio fascista 



Milano - Sanità pubblica, enti previdenziali, tutela del lavoro e Stato sociale hanno, nel nostro Paese, un'origine comune che troppo spesso viene volutamente dimenticata. Un'origine che non è di sinistra ma che affonda proprio nel Ventennio fascista.
Ci vuole uno studioso della tempra e della bravura di Michele Giovanni Bontempo - giurista cattolico e funzionario del Ministero dell'Economia e delle Finanze - per riportare alla luce quel lungo processo che, nell'arco di ben quindici anni, ha portato il nostro Paese a fare impresa. Dall’agro-alimentare al tessile, dal chimico al meccanico. Lo Stato sociale nel Ventennio racconta la nascita di quel prestigioso marchio, noto a livello mondiale con il nome di made in Italy. E' così che, capitolo dopo capitolo, Bontempo ripercorre con sapienza la storia di quelle aziende (tuttora molto vitali) che sono il vanto della nostra produzione. 
Il welfare del Ventennio Dall'Istituto nazionale di assistenza malattie (Inam) all'Opera maternità e infanzia, dall'Assistenza ospedaliera per i poveri alle grandi opere pubbliche. "Chi ha promosso questo welfare italiano, questa sociale, economica ed industrial, che ha reso grande l'Italia anche all'estero? - si chiede Bontempo - non la sinistra, ma il fascismo durante il Ventennio. Una legislazione sociale che ha ripreso il meglio del welfare giolittiano". Nel saggio pubblicato nella collana dei Libri del Borghese, Bontempo descrive con estrema precisione il cambiamento della società italiana negli anni che videro la nascita e l'affermazione del fascismo, soffermandosi soprattutto sulle leggi e sui provvedimenti che portarono il nostro Paese tra le nazioni con il Welfare più evoluto dell'epoca. Da Lo Stato sociale nel Ventennio emerge, con gustosa chiarezza, la profonda maturazione della società italiana che vede rivoluzionarsi i rapporti alla base del lavoro. Datori di lavoro e lavoratori hanno diritti ed obblighi reciproci.
Un Ventennio di cambiamenti Le fonti di Bontempo sono i testi storici e le Gazzette Ufficiali dell'epoca, rarità oggi sconosciute al grande pubblico. Si inizia con un rapido esame della società e dell'economia appena emerse dalla Grande Guerra, allo sbando la prima, praticamente distrutta la seconda. Partendo da tale premessa Bontempo analizza le politiche intraprese dal governo Mussolini per agevolare la tendenza a "fare impresa". Una tendenza che, stranamente, avrebbe poi salvato l'economia italiana sando vita al boom economica degli anni Cinquanta e Sessanta. Tutto questo passando attraverso la promozione di una politica sociale senza precedenti. Alla fissazione dell’orario di lavoro fa seguito l’ampia tutela per le donne (di questi anni il divieto di licenziamento per le gestanti) e i bambini. Non solo. Il saggio di Bontempo mostra molto chiaramente come il governo Mussolini abbia varato la prima normazione relativa all’igiene ed alla salubrità delle fabbriche.

La legislazione sociale del Ventennio Lo Stato sociale nel Ventennio riporta alla luce, con estremo coraggio, conquiste che non vengono insegnate a scuola. E' così che Bontempo ripercorre le radici del divieto di licenziamento senza giustificato motivo o senza giusta causa e degli istituti che garantiscono e regolano non solo la pensione ma anche le assicurazioni di invalidità, vecchiaia e disoccupazione. Bontempo ricorda, poi, come sia proprio di questi anni l’introduzione degli assegni per gli operai con famiglia numerosa e l'istituzione di strutture il cui fine è quello di assistere i poveri e quelli che oggi chiameremmo "diversamente abili". Nel Ventennio, spiega Bontempo, la conservazione del posto di lavoro era garantita e favorita da continui corsi professionali che avevano lo scopo di aggiornare il lavoratori. Sono solo alcuni (pochi) degli esempi che il giurista confeziona in un saggio istruttivo e prezioso per riscoprire le radici e i cardini del nostro Stato sociale

http://www.ilgiornale.it/cultura/se_stato_sociale_affonda_radici_ventennio/01-01-2011/articolo-id=497069-page=0-comments=1?&LINK=MB_T http://www.ilgiornale.it/cultura/se_stato_sociale_affonda_radici_ventennio/01-01-2011/articolo-id=497069-page=0-comments=1?&LINK=MB_T 
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“Tamarreide”? Cos’è un insulto di cattivo gusto? Trovo pacifico che viviamo in un’era di “coatti” ma farne addirittura un programma “gettonato” e in onda su uno dei principali canali televisivi italiani, Italia 1, mi sembra francamente eccessivo! Come sempre si conferma la tendenza di remare “contro natura” e di dirigere lo sguardo verso il “trash”, il diseducativo, il superficiale. Da diverso tempo mi batto, ci battiamo insistentemente contro la cosiddetta “tv spazzatura”, contro quei mass media così tenaci nel confondere i giovani, nell’insegnar loro nient’altro che “valori commerciali e di profitto”, sapientemente incastonati fra mode, strumentalizzazioni, lavaggi del cervello ed “etichette” facili; di tutt’altro abbiamo bisogno oggi, di tutt’altro! Profonda è la necessità, soprattutto per le nuove generazioni di adolescenti, di un sistema di regole, di valori sani ed universali, di esempi concreti volti al buon senso, di identità chiare, di punti di riferimento capaci di cementare le labili colonne del futuro e non del contrario. Presi, personalmente e più volte, forti posizioni in merito a tematiche delicate e fortemente attuali come queste, facendo esempi circa altra “immondizia” televisiva purtroppo in voga da qualche anno, il famigerato “Grande Fratello” e programmi, situazioni simili. Tristemente noto che anziché cambiare il vento, anziché generare buonsenso, i tempi non cambiano mai. Noi siamo qui per questo, per non trattare solo questioni locali; lottiamo al fine di tutelare i giovani e combattere i “demoni moderni”. Perché, ci chiediamo, esaltare la figura del “tamarro”, del “coatto”, di chi forzatamente, come si astrae dalla stessa definizione, vive di moda, d’immagine, di costruzione, di “maschera” e allontana da sé la naturalezza, l’umiltà, la spontaneità, fornendo un modello di gesso, non una persona? Perché dare questi maledetti esempi a generazioni di giovani già duramente provati, “soli”, dimenticati dalla società circostante, fortemente e spesso criticati solo per il loro essere, senza più punti di riferimento, senza una via, una guida, al totale sbaraglio? E’ proprio necessario? Crediamo assolutamente di NO! Un altro “plauso” sarcastico va a tutti gli autori di programmi televisivi tali, che hanno l’immensa responsabilità, della quale sono pienamente coscienti, di contribuire a rendere i ragazzi e le ragazze del 2000 “carne da macello”, assieme a multinazionali e mode, assieme a capitalismo e globalizzazione sfrenati! Bravi! Chapeau! Ci fa rabbia, credeteci, questo voler estirpare l’anima per plasmarla a proprio uso e soprattutto consumo, parole estremamente in voga negli ultimi anni! Come sempre, con l’umiltà e la determinazione di chi ha chiara la propria identità e vuole costruire il proprio futuro sulle basi dell’indipendenza mentale, osiamo schierarci verso i giovani, in loro difesa, compatti e diretti, senza fronzoli, in un mondo di retori e “maestri”, di menti eccelse e “prime donne”, incapaci, però di mettersi in gioco realmente. Da giovani per i giovani, per la gioventù italiana. Il nostro grido di sdegno parta dalla Tuscia. Che questo insulso programma venga immediatamente sospeso. Emanuele Ricucci 
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Dagli atti del processo emergono altri quattro atti di sottomissione e la dichiarazione di Bracci di essere iscritto al PNF sin dal 1922 Le ricerche svolte dal Centro Studi Nadir di Terni e dal Dott. Pietro Cappellari (Fondazione della RSI – Istituto Storico) in merito al processo dell’antifascista Claudio Bracci hanno portato alla luce nuovi documenti, oltre al già citato “atto di sottomissione” di Bruno Zenoni, futuro cofondatore della Brigata garibaldina “Antonio Gramsci” e Presidente dell’ANPI.
«L’incartamento del processo Bracci è una miniera di informazioni – dichiara il Dott. Cappellari – dal quale abbiamo ricavato quattro atti di sottomissione, nonché dati importanti sugli imputati, la loro attività politica e la famiglia di origine. Claudio Bracci, ad esempio, è figlio del primario di chirurgia dell’Ospedale di Terni e della fiduciaria ternana per i Fasci Femminili; è iscritto al PNF dal 1922, anno della Marcia su Roma».
Claudio Bracci, Vero Zacaglioni, Bruno Zenoni, Brenno Diociaiuti ed Emilio Proietti insieme ad altri quattro elementi, furono arrestati come promotori de “La Scintilla”, foglio di una cellula comunista.
Marco Petrelli: «Molto interessante l’episodio relativo alle gare di voga a Piediluco, del 2 Luglio 1938. Bracci racconterà in fase di interrogatorio che quel giorno era intento a distribuire copie de “La Scintilla”. Questa sua dichiarazione susciterà stupore tra le Autorità fasciste poiché fino ad allora “la di lui madre era ancora la delegata dei Fasci Femminili e lui era sempre considerato un fedele fascista della Vigilia”».
Ancora Cappellari: «In merito agli atti di sottomissione, c’è da rimanere allibiti di fronte a quanto arriva a scrivere Emilio Proietti, che si propone come agente al servizio della Questura di Terni e promette di “obbedire a tutto ciò che mi verrà comandato; lavorerò per la causa fascista e dell’Italia imperiale”».
Durante la cerimonia per il 67o anniversario della “liberazione” di Terni, il Sindaco Leopoldo Di Girolamo ha dichiarato come risultino “fuori luogo e risibili presunte revisioni sul ruolo della Resistenza ternana e umbra nella ‘liberazione’ della nostra città”. Di fronte a tali dichiarazioni, il Centro Studi Nadir non si perde d’animo, aggiungendo: “L’accusa di ‘revisionismo’ nasce spesso da un rifiuto che affonda le proprie radici in una visione ‘politica’ della storia. La storia è ricerca ed analisi, non uno strumento di consenso e di demagogia”.
Ufficio Stampa
Centro Studi Nadir Terni 
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venerdì, 17 giugno 2011





 

Verona, Giovedì 16 Giugno 2011
 
COMUNICATO
 
Domani la nostra città riceverà la visita del presidente della repubblica Giorgio Napolitano, ospite d’onore della “prima” della stagione lirica areniana, insieme a tanti illustri personaggi come l’autentico padrone di casa David Thorne, l’ambasciatore del paese dove la libertà è una statua.
Da giorni campeggiano sulle pagine degli organi d’informazione gli appelli per una Verona tutta imbandierata di tricolori, ovviamente nel contesto del 150esimo di una unificazione d’Italia, da cui però l’ufficialità ha magicamente cancellato un ventennio.
Noi l’appello a cotanto impeto di “italianità” e di “patriottismo” lo rimandiamo gentilmente al mittente.
Così come rigettiamo l’immagine della presunta “imparzialità” del sig. Napolitano, presidente di “tutti gli italiani”.
Lo stesso Napolitano che, fuori da ogni suo ruolo, ha ripetutamente appoggiato la sconcia aggressione italiana alla Libia, aggiungendo un’altra macchia ad una fedina penale nazionale che ci vuole ladri e traditori…
Lo stesso Napolitano che quando chi portava il tricolore veniva etichettato come fascista, preferiva la bandiera rossa…
Lo stesso Napolitano il cui cuore batteva all’unisono coi motori dei carri armati sovietici, che nel ’56 schiacciavano nel sangue la rivolta di Budapest…
Lo stesso Napolitano che in piena Guerra Fredda era curiosamente l’unico dirigente comunista bene accetto negli Stati uniti…
No grazie! Dopo la carnevalata della “colonna della libertà” di aprile per compiacere i beccamorti dell’antifascismo e tutti quelli che traggono profitto dalle falsificazioni , anche domani, Noi, il Tricolore lo serberemo in cuore, per un’Idea di Italia che affonda le radici nei millenni e per un’altra Repubblica…
 
Luca Zampini
Coordinatore provinciale
Circoli di Fiamma Futura per il Progetto Nazionale


  
Verona, Giovedì 16 Giugno 2011
 
COMUNICATO
 
Domani la nostra città riceverà la visita del presidente della repubblica Giorgio Napolitano, ospite d’onore della “prima” della stagione lirica areniana, insieme a tanti illustri personaggi come l’autentico padrone di casa David Thorne, l’ambasciatore del paese dove la libertà è una statua.
Da giorni campeggiano sulle pagine degli organi d’informazione gli appelli per una Verona tutta imbandierata di tricolori, ovviamente nel contesto del 150esimo di una unificazione d’Italia, da cui però l’ufficialità ha magicamente cancellato un ventennio.
Noi l’appello a cotanto impeto di “italianità” e di “patriottismo” lo rimandiamo gentilmente al mittente.
Così come rigettiamo l’immagine della presunta “imparzialità” del sig. Napolitano, presidente di “tutti gli italiani”.
Lo stesso Napolitano che, fuori da ogni suo ruolo, ha ripetutamente appoggiato la sconcia aggressione italiana alla Libia, aggiungendo un’altra macchia ad una fedina penale nazionale che ci vuole ladri e traditori…
Lo stesso Napolitano che quando chi portava il tricolore veniva etichettato come fascista, preferiva la bandiera rossa…
Lo stesso Napolitano il cui cuore batteva all’unisono coi motori dei carri armati sovietici, che nel ’56 schiacciavano nel sangue la rivolta di Budapest…
Lo stesso Napolitano che in piena Guerra Fredda era curiosamente l’unico dirigente comunista bene accetto negli Stati uniti…
No grazie! Dopo la carnevalata della “colonna della libertà” di aprile per compiacere i beccamorti dell’antifascismo e tutti quelli che traggono profitto dalle falsificazioni , anche domani, Noi, il Tricolore lo serberemo in cuore, per un’Idea di Italia che affonda le radici nei millenni e per un’altra Repubblica…
 
Luca Zampini
Coordinatore provinciale
Circoli di Fiamma Futura per il Progetto Nazionale
  
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giovedì, 16 giugno 2011

  
MAZZOLA E GIRALUCCI 17-06 1974--17-06 2011


17 giugno 1974: Il battesimo di fuoco delle Brigate Rosse:
Giuseppe Mazzola, aveva sessant'anni. Era un carabiniere pensionato dell'Arma, per la quale, lui bergamasco, aveva prestato servizio lungamente in Calabria, dove aveva sposato Giuditta Caccia mettendo al mondo quattro figli. quando nei primi anni Sessanta si erano trasferiti a Padova. Per rendersi utile in qualche modo Giuseppe aveva assunto, pur non avendo la tessera del partito, l'impegno di tenere la contabilità del Movimento sociale e di adoperarsi in piccoli lavori marginali come il disbrigo e l'inoltro della posta.
Graziano Giralucci aveva invece solo 29 anni, era sposato con Bruna Vettorato, e padre di una bambina di tre anni, Silvia. Agente di commercio in articoli sanitari, aveva fondato il Cus Padova Rugby ed era un assiduo giocatore. Le foto di famiglia mostrano un giovanotto muscoloso, con le spalle larghe, un sorriso un po' ironico di sfida, capelli corti e folti con un ciuffo ben pettinato che gli copre in parte la fronte.
Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci si incontrano quella mattina di giugno nella sede del Movimento sociale e vengono assassinati da un commando delle Brigate Rosse.
E' questo il primo fatto di sangue attribuito storicamente alla formazione armata. Secondo la ricostruzione processuale, che avviene successivamente nell'arco di circa vent'anni, le cose sono andate così.
Il commando Br era formato da Fabrizio Pelli, Roberto Ognibene, Giorgio Semeria, Martino Serafini e Susanna Ronconi. Semeria è l'autista del gruppo. La Ronconi e Serafini, armati, fanno da palo sulle scale. Pelli e Ognibene, che pochi giorni prima si è già introdotto nella sede del Msi con il compito di studiare "l'azione", irrompono nei locali. Si trovano di fronte Mazzola e Giralucci e puntano le pistole.
Mazzola, non intimorito, afferra la pistola di uno dei due terroristi e Giralucci cerca di immobilizzarlo abbrancandolo per il collo. Mazzola perde il controllo, gli sfugge la presa del silenziatore e scivola a terra. L'altro terrorista a questo punto interviene per difendere il compagno, spara un colpo che raggiunge alla spalla Giralucci ed un secondo che colpisce Mazzola già a terra trapassandogli la gamba destra e l'addome. Mazzola e Giralucci, che a questo punto non possono più opporre resistenza, vengono finiti ognuno con un colpo alla testa. Un'esecuzione crudele e feroce, che le Br rivendicano alcuni giorni dopo con un comunicato: "Lunedì 17 giugno 1974, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la sede provinciale del Msi in via Zabarella. I due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati".
Il comunicato non dice che le due persone, una delle quali anziana, erano già state ridotte all'impotenza prima di essere assassinate. Con freddo calcolo si giustifica a posteriori, "politicamente", il duplice delitto e Giuseppe e Graziano assumono il connotato astratto di "fascisti". Il vertice delle Brigate Rosse, prima di assumersi la paternità di questa "azione" con cui per la prima volta si trova di fronte alla morte, medita sulle possibili conseguenze, soprattutto sulla reazione della propria base di riferimento.
Dopo qualche tentennamento prevale la considerazione del fatto che la "cancellazione di due fasci" verrà accolta senza problemi e quindi le Br rivendicano il delitto sublimandolo in atto di guerra. "Per capire come ciò possa essere avvenuto - dice Piero Mazzola - bisogna riandare al clima di quegli anni. Era il tempo in cui campeggiavano sui muri le scritte 'Uccidere un fascista non è reato', e 'I covi dei fascisti vanno chiusi col fuoco'... La 'caccia al fascista' era all'ordine del giorno e non faceva neanche più notizia".
Dopo la rivendicazione i mass media, parlando di "fantomatiche" e "sedicenti" Brigate Rosse, accreditano l'ipotesi che in realtà il duplice omicidio sia stato commesso da "fascisti mascherati". E alla Facoltà di Scienze politiche, dove insegna Toni Negri, compare un tazebao in cui si spiega l'accaduto come conseguenza di uno "scontro tra fascisti".
Per i sei anni successivi la magistratura inseguirà la "pista nera" nello svolgimento delle indagini, fin che alcuni pentiti non cominceranno a fare chiarezza sull'evento. Dopo molti anni e numerosi processi, nel 1992 la Corte di Cassazione, confermando le risultanze del processo di appello in secondo grado, emetterà le seguenti condanne: 16 anni per Curcio e Moretti e 18 per Franceschini, in quanto mandanti; 18 anni ad Ognibene, 12 a Semeria, 12 alla Ronconi, 7 anni e mezzo a Serafini come esecutori. Pelli nel 1979 era morto in carcere di leucemia.
Giralucci e Mazzola sono due morti dimenticati. Pochi libri accennano all'uccisione di questi "due fascisti", dei quali quasi sempre non ci si ricorda neppure il nome: Graziano, un giovane del Movimento sociale; Giuseppe, un anziano carabiniere in pensione, di fede monarchica, che aveva scelto di mettere a disposizione dell'Msi una parte del suo tempo libero, ma che non partecipava neppure alle riunioni "politiche".
Padova li ha sepolti nell'indifferenza. Piero Mazzola ricorda i funerali in una città spettrale, con le vie deserte e le saracinesche abbassate.
Giralucci e Mazzola sono i primi di una lunga catena di morti ammazzati in assoluta gratuità, con ferocia, spesso con premeditazione. All'epoca del processo, nei primi anni Novanta, tutti i componenti della banda erano fuori dal carcere: in semilibertà Semeria, Susanna Ronconi ammessa al lavoro presso il gruppo Abele, a piede libero Serafini, impiegato presso il comune di Bologna Ognibene.
In quei giorni il presidente della Repubblica Francesco Cossiga annuncia che intende graziare Renato Curcio. Piero e gli altri famigliari di Giuseppe Mazzola chiedono la loro sospensione dallo status di cittadinanza italiana, mentre la figlia di Giralucci, Silvia, scrive a Cossiga: "La grazia è un'ingiustizia che ci offende, sia come famigliari delle vittime del terrorismo, che come privati cittadini. Mia madre ed io avevamo già espresso parere negativo alla grazia... La nostra vita è stata profondamente segnata da quell'episodio, è una vita non completa, non normale. Perché dobbiamo concedere una vita normale a chi non ha permesso che la nostra fosse tale? Hanno stroncato e segnato irreversibilmente troppe vite per avere il diritto di godersi la loro. Constatatone il fallimento, vorrebbero, e lei con loro, considerare la loro esperienza storicamente sorpassata, ma il dolore mio e della mia famiglia non è ancora storia, è vita".
Mario Moretti, uno dei mandanti, in un suo libro intervista sulle Brigate Rosse afferma che "c'è chi cerca di intorbidare una vicenda (la vicenda Br, n.d.a.) che è stata piena di speranze, forse illusioni, tentativi, errori, dolore, morte - ma non sozzure". La moglie e i figli di Mazzola, la moglie e la figlia di Giralucci la vedono diversamente.
"Non era mai morto nessuno nelle nostre azioni - scrive Moretti - ma chiunque non stesse nelle nuvole sapeva che poteva succedere, e avrebbe modificato la nostra collocazione. E malauguratamente con Padova lì ci trovavamo. Ne discutemmo. Considerai un opportunismo intollerabile far finta di niente. E pericoloso: cullarsi nell'illusione che stessimo spensieratamente giocando una partita della quale non sapevamo valutare le conseguenze. Cambiammo il volantino proposto dalla colonna del Veneto e rivendicammo l'azione spiegando quel che era avvenuto. Non è che la lotta armata ci stava prendendo la mano, si manifestava per quello che è: una lotta dove si muore. Negli anni successivi sospendemmo ogni attività nel Veneto e ci ritornammo soltanto nel '78..."
Questo è l'insegnamento che il leader storico delle Brigate Rosse Mario Moretti ricava dall'azione, cioè dal duplice assassinio, di Padova: la lotta armata è una lotta dove si muore. Ma muore chi? E per che cosa? E che cosa resta di quelle vittime?

Un giornalista in un intervista al figlio di Mazzola:
Avvocato Piero Mazzola, che cosa le ha lasciato suo padre?
"Un grande esempio di dignità. Fu ucciso perché non volle piegare le ginocchia di fronte ai terroristi. Diceva sempre che le ginocchia si piegano solo davanti a Dio. Questo è stato per me il suo insegnamento ed è quanto mi rimane di lui".
Pochi giorni fa (nell'anniversario della strage) una manifestazione in ricordo dei due caduti:
Perche noi non dimentichiamo 
          
 
17 giugno 1974: Il battesimo di fuoco delle Brigate Rosse:
Giuseppe Mazzola, aveva sessant'anni. Era un carabiniere pensionato dell'Arma, per la quale, lui bergamasco, aveva prestato servizio lungamente in Calabria, dove aveva sposato Giuditta Caccia mettendo al mondo quattro figli. quando nei primi anni Sessanta si erano trasferiti a Padova. Per rendersi utile in qualche modo Giuseppe aveva assunto, pur non avendo la tessera del partito, l'impegno di tenere la contabilità del Movimento sociale e di adoperarsi in piccoli lavori marginali come il disbrigo e l'inoltro della posta.
Graziano Giralucci aveva invece solo 29 anni, era sposato con Bruna Vettorato, e padre di una bambina di tre anni, Silvia. Agente di commercio in articoli sanitari, aveva fondato il Cus Padova Rugby ed era un assiduo giocatore. Le foto di famiglia mostrano un giovanotto muscoloso, con le spalle larghe, un sorriso un po' ironico di sfida, capelli corti e folti con un ciuffo ben pettinato che gli copre in parte la fronte.
Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci si incontrano quella mattina di giugno nella sede del Movimento sociale e vengono assassinati da un commando delle Brigate Rosse.
E' questo il primo fatto di sangue attribuito storicamente alla formazione armata. Secondo la ricostruzione processuale, che avviene successivamente nell'arco di circa vent'anni, le cose sono andate così.
Il commando Br era formato da Fabrizio Pelli, Roberto Ognibene, Giorgio Semeria, Martino Serafini e Susanna Ronconi. Semeria è l'autista del gruppo. La Ronconi e Serafini, armati, fanno da palo sulle scale. Pelli e Ognibene, che pochi giorni prima si è già introdotto nella sede del Msi con il compito di studiare "l'azione", irrompono nei locali. Si trovano di fronte Mazzola e Giralucci e puntano le pistole.
Mazzola, non intimorito, afferra la pistola di uno dei due terroristi e Giralucci cerca di immobilizzarlo abbrancandolo per il collo. Mazzola perde il controllo, gli sfugge la presa del silenziatore e scivola a terra. L'altro terrorista a questo punto interviene per difendere il compagno, spara un colpo che raggiunge alla spalla Giralucci ed un secondo che colpisce Mazzola già a terra trapassandogli la gamba destra e l'addome. Mazzola e Giralucci, che a questo punto non possono più opporre resistenza, vengono finiti ognuno con un colpo alla testa. Un'esecuzione crudele e feroce, che le Br rivendicano alcuni giorni dopo con un comunicato: "Lunedì 17 giugno 1974, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la sede provinciale del Msi in via Zabarella. I due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati".
Il comunicato non dice che le due persone, una delle quali anziana, erano già state ridotte all'impotenza prima di essere assassinate. Con freddo calcolo si giustifica a posteriori, "politicamente", il duplice delitto e Giuseppe e Graziano assumono il connotato astratto di "fascisti". Il vertice delle Brigate Rosse, prima di assumersi la paternità di questa "azione" con cui per la prima volta si trova di fronte alla morte, medita sulle possibili conseguenze, soprattutto sulla reazione della propria base di riferimento.
Dopo qualche tentennamento prevale la considerazione del fatto che la "cancellazione di due fasci" verrà accolta senza problemi e quindi le Br rivendicano il delitto sublimandolo in atto di guerra. "Per capire come ciò possa essere avvenuto - dice Piero Mazzola - bisogna riandare al clima di quegli anni. Era il tempo in cui campeggiavano sui muri le scritte 'Uccidere un fascista non è reato', e 'I covi dei fascisti vanno chiusi col fuoco'... La 'caccia al fascista' era all'ordine del giorno e non faceva neanche più notizia".
Dopo la rivendicazione i mass media, parlando di "fantomatiche" e "sedicenti" Brigate Rosse, accreditano l'ipotesi che in realtà il duplice omicidio sia stato commesso da "fascisti mascherati". E alla Facoltà di Scienze politiche, dove insegna Toni Negri, compare un tazebao in cui si spiega l'accaduto come conseguenza di uno "scontro tra fascisti".
Per i sei anni successivi la magistratura inseguirà la "pista nera" nello svolgimento delle indagini, fin che alcuni pentiti non cominceranno a fare chiarezza sull'evento. Dopo molti anni e numerosi processi, nel 1992 la Corte di Cassazione, confermando le risultanze del processo di appello in secondo grado, emetterà le seguenti condanne: 16 anni per Curcio e Moretti e 18 per Franceschini, in quanto mandanti; 18 anni ad Ognibene, 12 a Semeria, 12 alla Ronconi, 7 anni e mezzo a Serafini come esecutori. Pelli nel 1979 era morto in carcere di leucemia.
Giralucci e Mazzola sono due morti dimenticati. Pochi libri accennano all'uccisione di questi "due fascisti", dei quali quasi sempre non ci si ricorda neppure il nome: Graziano, un giovane del Movimento sociale; Giuseppe, un anziano carabiniere in pensione, di fede monarchica, che aveva scelto di mettere a disposizione dell'Msi una parte del suo tempo libero, ma che non partecipava neppure alle riunioni "politiche".
Padova li ha sepolti nell'indifferenza. Piero Mazzola ricorda i funerali in una città spettrale, con le vie deserte e le saracinesche abbassate.
Giralucci e Mazzola sono i primi di una lunga catena di morti ammazzati in assoluta gratuità, con ferocia, spesso con premeditazione. All'epoca del processo, nei primi anni Novanta, tutti i componenti della banda erano fuori dal carcere: in semilibertà Semeria, Susanna Ronconi ammessa al lavoro presso il gruppo Abele, a piede libero Serafini, impiegato presso il comune di Bologna Ognibene.
In quei giorni il presidente della Repubblica Francesco Cossiga annuncia che intende graziare Renato Curcio. Piero e gli altri famigliari di Giuseppe Mazzola chiedono la loro sospensione dallo status di cittadinanza italiana, mentre la figlia di Giralucci, Silvia, scrive a Cossiga: "La grazia è un'ingiustizia che ci offende, sia come famigliari delle vittime del terrorismo, che come privati cittadini. Mia madre ed io avevamo già espresso parere negativo alla grazia... La nostra vita è stata profondamente segnata da quell'episodio, è una vita non completa, non normale. Perché dobbiamo concedere una vita normale a chi non ha permesso che la nostra fosse tale? Hanno stroncato e segnato irreversibilmente troppe vite per avere il diritto di godersi la loro. Constatatone il fallimento, vorrebbero, e lei con loro, considerare la loro esperienza storicamente sorpassata, ma il dolore mio e della mia famiglia non è ancora storia, è vita".
Mario Moretti, uno dei mandanti, in un suo libro intervista sulle Brigate Rosse afferma che "c'è chi cerca di intorbidare una vicenda (la vicenda Br, n.d.a.) che è stata piena di speranze, forse illusioni, tentativi, errori, dolore, morte - ma non sozzure". La moglie e i figli di Mazzola, la moglie e la figlia di Giralucci la vedono diversamente.
"Non era mai morto nessuno nelle nostre azioni - scrive Moretti - ma chiunque non stesse nelle nuvole sapeva che poteva succedere, e avrebbe modificato la nostra collocazione. E malauguratamente con Padova lì ci trovavamo. Ne discutemmo. Considerai un opportunismo intollerabile far finta di niente. E pericoloso: cullarsi nell'illusione che stessimo spensieratamente giocando una partita della quale non sapevamo valutare le conseguenze. Cambiammo il volantino proposto dalla colonna del Veneto e rivendicammo l'azione spiegando quel che era avvenuto. Non è che la lotta armata ci stava prendendo la mano, si manifestava per quello che è: una lotta dove si muore. Negli anni successivi sospendemmo ogni attività nel Veneto e ci ritornammo soltanto nel '78..."
Questo è l'insegnamento che il leader storico delle Brigate Rosse Mario Moretti ricava dall'azione, cioè dal duplice assassinio, di Padova: la lotta armata è una lotta dove si muore. Ma muore chi? E per che cosa? E che cosa resta di quelle vittime?

Un giornalista in un intervista al figlio di Mazzola:
Avvocato Piero Mazzola, che cosa le ha lasciato suo padre?
"Un grande esempio di dignità. Fu ucciso perché non volle piegare le ginocchia di fronte ai terroristi. Diceva sempre che le ginocchia si piegano solo davanti a Dio. Questo è stato per me il suo insegnamento ed è quanto mi rimane di lui".
Pochi giorni fa (nell'anniversario della strage) una manifestazione in ricordo dei due caduti:
Perche noi non dimentichiamo 
 17 giugno 1974: Il battesimo di fuoco delle Brigate Rosse:
Giuseppe Mazzola, aveva sessant'anni. Era un carabiniere pensionato dell'Arma, per la quale, lui bergamasco, aveva prestato servizio lungamente in Calabria, dove aveva sposato Giuditta Caccia mettendo al mondo quattro figli. quando nei primi anni Sessanta si erano trasferiti a Padova. Per rendersi utile in qualche modo Giuseppe aveva assunto, pur non avendo la tessera del partito, l'impegno di tenere la contabilità del Movimento sociale e di adoperarsi in piccoli lavori marginali come il disbrigo e l'inoltro della posta.  
Graziano Giralucci aveva invece solo 29 anni, era sposato con Bruna Vettorato, e padre di una bambina di tre anni, Silvia. Agente di commercio in articoli sanitari, aveva fondato il Cus Padova Rugby ed era un assiduo giocatore. Le foto di famiglia mostrano un giovanotto muscoloso, con le spalle larghe, un sorriso un po' ironico di sfida, capelli corti e folti con un ciuffo ben pettinato che gli copre in parte la fronte.
Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci si incontrano quella mattina di giugno nella sede del Movimento sociale e vengono assassinati da un commando delle Brigate Rosse.
E' questo il primo fatto di sangue attribuito storicamente alla formazione armata. Secondo la ricostruzione processuale, che avviene successivamente nell'arco di circa vent'anni, le cose sono andate così.
Il commando Br era formato da Fabrizio Pelli, Roberto Ognibene, Giorgio Semeria, Martino Serafini e Susanna Ronconi. Semeria è l'autista del gruppo. La Ronconi e Serafini, armati, fanno da palo sulle scale. Pelli e Ognibene, che pochi giorni prima si è già introdotto nella sede del Msi con il compito di studiare "l'azione", irrompono nei locali. Si trovano di fronte Mazzola e Giralucci e puntano le pistole.
Mazzola, non intimorito, afferra la pistola di uno dei due terroristi e Giralucci cerca di immobilizzarlo abbrancandolo per il collo. Mazzola perde il controllo, gli sfugge la presa del silenziatore e scivola a terra. L'altro terrorista a questo punto interviene per difendere il compagno, spara un colpo che raggiunge alla spalla Giralucci ed un secondo che colpisce Mazzola già a terra trapassandogli la gamba destra e l'addome. Mazzola e Giralucci, che a questo punto non possono più opporre resistenza, vengono finiti ognuno con un colpo alla testa. Un'esecuzione crudele e feroce, che le Br rivendicano alcuni giorni dopo con un comunicato: "Lunedì 17 giugno 1974, un nucleo armato delle Brigate Rosse ha occupato la sede provinciale del Msi in via Zabarella. I due fascisti presenti, avendo violentemente reagito, sono stati giustiziati".
Il comunicato non dice che le due persone, una delle quali anziana, erano già state ridotte all'impotenza prima di essere assassinate. Con freddo calcolo si giustifica a posteriori, "politicamente", il duplice delitto e Giuseppe e Graziano assumono il connotato astratto di "fascisti". Il vertice delle Brigate Rosse, prima di assumersi la paternità di questa "azione" con cui per la prima volta si trova di fronte alla morte, medita sulle possibili conseguenze, soprattutto sulla reazione della propria base di riferimento.
Dopo qualche tentennamento prevale la considerazione del fatto che la "cancellazione di due fasci" verrà accolta senza problemi e quindi le Br rivendicano il delitto sublimandolo in atto di guerra. "Per capire come ciò possa essere avvenuto - dice Piero Mazzola - bisogna riandare al clima di quegli anni. Era il tempo in cui campeggiavano sui muri le scritte 'Uccidere un fascista non è reato', e 'I covi dei fascisti vanno chiusi col fuoco'... La 'caccia al fascista' era all'ordine del giorno e non faceva neanche più notizia".
Dopo la rivendicazione i mass media, parlando di "fantomatiche" e "sedicenti" Brigate Rosse, accreditano l'ipotesi che in realtà il duplice omicidio sia stato commesso da "fascisti mascherati". E alla Facoltà di Scienze politiche, dove insegna Toni Negri, compare un tazebao in cui si spiega l'accaduto come conseguenza di uno "scontro tra fascisti".
Per i sei anni successivi la magistratura inseguirà la "pista nera" nello svolgimento delle indagini, fin che alcuni pentiti non cominceranno a fare chiarezza sull'evento. Dopo molti anni e numerosi processi, nel 1992 la Corte di Cassazione, confermando le risultanze del processo di appello in secondo grado, emetterà le seguenti condanne: 16 anni per Curcio e Moretti e 18 per Franceschini, in quanto mandanti; 18 anni ad Ognibene, 12 a Semeria, 12 alla Ronconi, 7 anni e mezzo a Serafini come esecutori. Pelli nel 1979 era morto in carcere di leucemia.
Giralucci e Mazzola sono due morti dimenticati. Pochi libri accennano all'uccisione di questi "due fascisti", dei quali quasi sempre non ci si ricorda neppure il nome: Graziano, un giovane del Movimento sociale; Giuseppe, un anziano carabiniere in pensione, di fede monarchica, che aveva scelto di mettere a disposizione dell'Msi una parte del suo tempo libero, ma che non partecipava neppure alle riunioni "politiche".
Padova li ha sepolti nell'indifferenza. Piero Mazzola ricorda i funerali in una città spettrale, con le vie deserte e le saracinesche abbassate.
Giralucci e Mazzola sono i primi di una lunga catena di morti ammazzati in assoluta gratuità, con ferocia, spesso con premeditazione. All'epoca del processo, nei primi anni Novanta, tutti i componenti della banda erano fuori dal carcere: in semilibertà Semeria, Susanna Ronconi ammessa al lavoro presso il gruppo Abele, a piede libero Serafini, impiegato presso il comune di Bologna Ognibene.
In quei giorni il presidente della Repubblica Francesco Cossiga annuncia che intende graziare Renato Curcio. Piero e gli altri famigliari di Giuseppe Mazzola chiedono la loro sospensione dallo status di cittadinanza italiana, mentre la figlia di Giralucci, Silvia, scrive a Cossiga: "La grazia è un'ingiustizia che ci offende, sia come famigliari delle vittime del terrorismo, che come privati cittadini. Mia madre ed io avevamo già espresso parere negativo alla grazia... La nostra vita è stata profondamente segnata da quell'episodio, è una vita non completa, non normale. Perché dobbiamo concedere una vita normale a chi non ha permesso che la nostra fosse tale? Hanno stroncato e segnato irreversibilmente troppe vite per avere il diritto di godersi la loro. Constatatone il fallimento, vorrebbero, e lei con loro, considerare la loro esperienza storicamente sorpassata, ma il dolore mio e della mia famiglia non è ancora storia, è vita".
Mario Moretti, uno dei mandanti, in un suo libro intervista sulle Brigate Rosse afferma che "c'è chi cerca di intorbidare una vicenda (la vicenda Br, n.d.a.) che è stata piena di speranze, forse illusioni, tentativi, errori, dolore, morte - ma non sozzure". La moglie e i figli di Mazzola, la moglie e la figlia di Giralucci la vedono diversamente.
"Non era mai morto nessuno nelle nostre azioni - scrive Moretti - ma chiunque non stesse nelle nuvole sapeva che poteva succedere, e avrebbe modificato la nostra collocazione. E malauguratamente con Padova lì ci trovavamo. Ne discutemmo. Considerai un opportunismo intollerabile far finta di niente. E pericoloso: cullarsi nell'illusione che stessimo spensieratamente giocando una partita della quale non sapevamo valutare le conseguenze. Cambiammo il volantino proposto dalla colonna del Veneto e rivendicammo l'azione spiegando quel che era avvenuto. Non è che la lotta armata ci stava prendendo la mano, si manifestava per quello che è: una lotta dove si muore. Negli anni successivi sospendemmo ogni attività nel Veneto e ci ritornammo soltanto nel '78..."
Questo è l'insegnamento che il leader storico delle Brigate Rosse Mario Moretti ricava dall'azione, cioè dal duplice assassinio, di Padova: la lotta armata è una lotta dove si muore. Ma muore chi? E per che cosa? E che cosa resta di quelle vittime?

Un giornalista in un intervista al figlio di Mazzola:
Avvocato Piero Mazzola, che cosa le ha lasciato suo padre?
"Un grande esempio di dignità. Fu ucciso perché non volle piegare le ginocchia di fronte ai terroristi. Diceva sempre che le ginocchia si piegano solo davanti a Dio. Questo è stato per me il suo insegnamento ed è quanto mi rimane di lui".
Pochi giorni fa (nell'anniversario della strage) una manifestazione in ricordo dei due caduti:
 
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mercoledì, 15 giugno 2011

LE COMPAGNIE PETROLIFERE STRANIERE RINGRAZIANO GLI ITALIANI PER AVER RINUNCIATO ALLA LORO INDIPENDENZA ECONOMICA

 


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martedì, 14 giugno 2011

ANSA) - BARI, 13 GIU - In Puglia tutti pagheranno il ticket per le visite e gli esami specialistici: anche i bambini ''di eta' inferiore a sei anni'', gli anziani (da 65 anni in poi) e le persone con basso o nessun reddito. E' l'effetto dell'approvazione da parte del consiglio regionale - avvenuta oggi pomeriggio all'unanimita' - del ddl di abrogazione dei commi 1 e 2 dell'art. 13 della legge regionale di bilancio 2011.
La cancellazione di ogni tipo di esenzione dal ticket e' legata all'impegno assunto dalla Regione con il Governo per il Piano di rientro 2010-2012 dal deficit del sistema sanitario pugliese. 
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 FRANCESCO CECCHIN,16-06 -1979--16-06-2011

 

  
Siamo a Roma, è il 16 Giugno del 1979 e dopo ben 19 giorni di agonia muore Francesco Cecchin. E sapete perché? Francesco è stato buttato giù da un muro, nel quartiere Trieste, mentre rientrava a casa. Raccolto dalla Croce Rossa stringeva ancora in pugno le chiavi di casa. Ma facciamo un piccolo passo indietro. Siamo nel Maggio del 1979 e la tensione nella zona di Roma Est è piuttosto alta a causa delle continue provocazioni perpetrate da aderenti al PCI del quartiere ai danni di militanti del “Fronte della Gioventù” e delle loro sezioni. Ai primi del mese viene compiuto da questi “attivisti” comunisti un attentato incendiario contro la sede del M.S.I. di Viale Somalia che viene seguito, nei giorni successivi, da numerose azioni di disturbo della normale attività del “Fronte” condite con minacce ed atteggiamenti aggressivi. In tutti questi episodi viene notata la presenza di un’automobile, una Fiat 850 bianca che risulterà poi fondamentale nel seguito della vicenda. La sera del 28 Maggio, intorno alle ore 20, quattro ragazzi del F.d.G., tra cui Francesco Cecchin, si recano in Piazza Vescovio per affiggere manifesti, ma vengono subito notati da un gruppo di militanti della sezione comunista di Via Monterotondo, che danno inizio alla sistematica copertura di tali manifesti; un giovane cerca di impedire il proseguimento dell’azione provocatoria, ma viene circondato da una ventina di attivisti di estrema sinistra, capeggiati da S.M. che, dopo aver allontanato in modo spiccio un agente di P.S. in borghese chiamato ad intervenire, si rivolge ai ragazzi del Fronte con affermazioni del tono: “…vi abbiamo fatto chiudere Via Migiurtinia, vi faremo chiudere anche Viale Somalia…”; alla fine, volgendosi verso Francesco Cecchin, lo apostrofa così: “Tu stai attento, che se poi mi incazzo ti potresti fare male!”.La stessa sera, intorno alla mezzanotte, Francesco Cecchin scende di casa insieme alla sorella per una passeggiata fino a Via Montebuono, dove un suo amico lavora in un ristorante; verso le 24:15, mentre i due ragazzi sono fermi davanti all’edicola di Piazza Vescovio, spunta una Fiat 850 bianca che compie una brusca frenata davanti a loro; dall’auto scende un uomo che urla all’indirizzo di Francesco: “E’ lui, è lui, prendetelo!”. Intuendo il pericolo e, probabilmente, riconoscendo l’aggressore, Francesco fa allontanare la sorella e corre in direzione di Via Montebuono, inseguito dagli occupanti della macchina, che nel frattempo il suo guidatore sposta fino all’imboccatura della stessa Via Montebuono. La sorella, intanto, si getta vanamente al loro inseguimento, urlando: “Francesco, Francesco!”; le sue grida vengono udite da un giovane che, sceso in strada, nota un uomo darsi alla fuga verso Via Monterotondo e qui salire sulla Fiat 850 bianca che si allontana velocemente. Dopo aver telefonato alla Polizia, il giovane viene raggiunto da un inquilino dello stabile di Via Montebuono 5 che lo informa della presenza, sul suo terrazzo sottostante di cinque metri il piano stradale, di un ragazzo che giace esanime al suolo; il giovane, giunto sul posto, riconosce in quel ragazzo il suo amico Francesco Cecchin.
Il corpo è in posizione supina, ad una distanza di circa un metro e mezzo dalla base del muro; perde sangue da una tempia e dal naso, e stringe ancora nella mano sinistra un mazzo di chiavi, di cui una che spunta dalle dita è storta, e in quella destra un pacchetto di sigarette. A questo punto, mentre sarebbe stato lecito attendersi immediate indagini da parte delle Forze dell’Ordine, si assiste invece all’affrettarsi di tutti a liquidare l’accaduto come un incidente. Secondo alcuni, Francesco, “impaurito”, avrebbe scavalcato il muretto del cortile senza rendersi conto che al di sotto ci fosse un salto di cinque metri. Altri hanno addirittura negato che vi fosse stata una colluttazione tra il giovane e i suoi aggressori, come ha fatto il Commissario. Apparendo questa versione sospetta, mentre alcuni militanti del F.d.G. vegliano Francesco in coma, altri cominciano a fare indagini private, che portano a scoperte molto interessanti: innanzitutto si viene a sapere che Francesco conosceva molto bene quel palazzo e il suo cortile, in quanto ci abitava un suo amico; inoltre risulta strano che il corpo sia stato trovato in posizione supina, anziché riversa, tipica di chi si lancia, e senza fratture agli arti, inevitabili quando si effettua un salto volontario da una simile altezza. L’ipotesi che Francesco sia stato gettato di peso viene avvalorata da altri due particolari: il trauma cranico, sintomo che il peso dell’impatto al suolo si è scaricato tutto sulla testa, e il fatto che questa si trovi più vicina al muro rispetto ai piedi. La chiave piegata tra le dita di una mano e il pacchetto di sigarette nell’altra sono una prova ulteriore che gli aggressori hanno gettato il corpo di Francesco, già esanime, al di là del muretto che delimita il terrazzo: chi pensa di lanciarsi oltre un ostacolo cerca infatti di avere le mani libere. Che prima di questo tragico epilogo ci sia stata una colluttazione è dimostrato dalla chiave piegata rinvenuta tra le dita di Francesco, sicuramente usata come arma di difesa contro i suoi assassini. Anche le ferite riscontrate su tutto il corpo confermano la tesi dell’aggressione, essendo queste di natura traumatica e riconducibili a colpi ben assestati da persone esperte. A rendere inconfutabili queste tesi altri due importanti elementi: le tracce di sangue riscontrate sul pavimento del cortile lunghe alcuni metri fino al bordo del muretto e la dichiarazione resa da alcuni testimoni che affermano di avere udito: “…le grida di un ragazzo, poi alcuni attimi di silenzio, ed infine un forte tonfo non accompagnato da alcun grido!”. Risulta difficile credere che una persona possa gettarsi spontaneamente giù da un muro alto cinque metri senza emettere neanche il minimo suono vocale.
Il 16 Giugno, dopo 19 giorni di coma, Francesco muore. Le indagini partironotardi e male. S.M., militante comunista e proprietario della famigerata 850 bianca, fu arrestato. Disse di essere andato a vedere un film al cinema ma gli inquirenti verificarono che, quella sera, il cinema indicato da M. era chiuso per turno di riposo. Ciò nonostante la potente macchina di copertura si mise in moto e mentre le indagini proseguivano a rilento e non ci si preoccupava di verificare chi poteva essere insieme al M. questi venne fornito di un nuovo alibi, questa volta perfetto; ogni prova ed ogni riscontro venne fatto sparire. Anni dopo, il giudice, scrivendo la sentenza, dovrà dichiarare che se egli non era in grado di condannare l’imputato, se non era stato possibile fare piena luce sull’omicidio Cecchin, questo doveva essere ascritto ai ritardi nelle indagini di quei giorni, al modo di procedere degli investigatori, al punto che il magistrato ipotizza possibili procedimenti nei confronti degli stessi organi di Pubblica Sicurezza. Ma noi non abbiamo mai perso la speranza che sia fatta finalmente giustizia. L’importante è non dimenticare! Mai!
tratto da:
http://ladestrausonia.myblog.it/ 
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lunedì, 13 giugno 2011

L'avvocato: «Uno squallore unico:
fra dieci anni Fusaro sarà fuori»
 


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TREVISO - C'è tanta amarezza in casa Tassitani il giorno dopo il pronunciamento della Cassazione che ha mutato in 30 anni di reclusione l'ergastolo comminato in secondo grado a Michele Fusaro, riconosciuto colpevole di aver sequestrato e trucidato nel dicembre 2007 Iole Tassitani, la giovane donna di Castelfranco (Treviso) trovata 12 giorni dopo fatta a pezzi in un garage di Bassano (Vicenza).

«Finire così questa vicenda è di uno squallore unico - afferma il legale della famiglia, l'avvocato Roberto Quintavalle - non tanto per vendetta, ma per giustizia: chi ha ucciso è socialmente molto pericoloso, è incredibile che con un reato di questo genere non abbia preso l'ergastolo, soprattutto considerando che 30 anni di pena non saranno, ne ha scontati quattro e tra dieci sarà fuori. L'unica speranza che resta per onorare la memoria di Iole - aggiunge - è che approdi presto in Senato la modifica di un articolo del Codice di procedura penale, facendo sì che il rito abbreviato non possa essere concesso per i reati che prevedono l'ergastolo». A sostegno della proposta di modifica, spiega Quintavalle, «ci sono 40mila firme: tantissime, se si pensa che sono state raccolte qui da noi, tra Castelfranco e Bassano. La proposta di modifica è stata poi presentata in Parlamento dal sindaco Luciano Dussin, deputato, ed è stata approvata: adesso si aspetta che la proposta venga presentata al Senato. Abbiamo trovato molta sensibilità presso tutte le forze politiche, è una proposta legislativa molto sentita e apprezzata - sottolinea - un iter positivo di questa pratica allevierebbe il dolore della famiglia».

Tantissime, intanto, le manifestazioni di solidarietà: «da quando è cominciata questa vicenda - conclude il legale - la gente telefona alla famiglia, a me, o ai rappresentanti comunali di Castelfranco e Bassano con grande partecipazione emotiva: tutti volevano una sentenza finale diversa. C'è stupore e rabbia» 

http://www.ilgazzettino.it/articolo_app.php?id=39188&sez=NORDEST 
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sabato, 11 giugno 2011

LA GRANDE STORIA DEL VENTENNIO
 
postato da: sebastia11 alle ore 08:47 | link | commenti
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